L’arte monumentale bizantina

Mosaïque de l'impératrice Zoé, Sainte-Sophie (Istanbul, Turquie)

Lo scopo che ci siamo posti in questo elaborato è stato quello di offrire un panorama completo dell’arte bizantina dalla fondazione di Costantinopoli a nuova capitale dell’impero nel 330 fino a dopo la sua conquista da parte dei Turchi nel 1453.

Dopo questa data, infatti, sia in Occidente ma soprattutto nell’Europa Orientale si raggiunsero pregevoli risultati nel campo dell’arte da parte dei  popoli che hanno posto alla base della loro iconografia lo stile  bizantino.

Nella formulazione di questa ricerca è stata nostra premura comporre in una visione organica le varie tecniche che esprimono la ricchezza dell’estetica e l’elevato linguaggio figurativo. L’arte bizantina, infatti, pur mostrando numerose variazioni stilistiche, dovute alle diverse epoche e località, presenta un carattere fondamentalmente uniforme. Si tratta di un’arte essenzialmente cristiana posta al servizio della chiesa ed a dimostrazione e illustrazione della fede nella cui dimensione supera le forme del mondo creato per rendere presente l’invisibile.

In questa prospettiva le forme esteriori adombrano significati profondi ed i motivi come i soggetti del mondo classico si trasformano in una composizione dove la ricerca ritmica o spirituale è più importante della fedele aderenza alla natura.

E’ stato anche nostro intento mettere in evidenza come l’arte bizantina, sorta fin dalla sua nascita dal cristianesimo, arricchita dalle difficili ricerche dogmatiche dei concili, purificata dalla persecuzione iconoclastica, è divenuta prolungamento dell’incarnazione. In questa dinamica l’immagine è intesa come trascrizione della rivelazione operatasi nel Verbo e consegnata nei Vangeli in un linguaggio più immediato e visivo, facilmente accessibile alle masse dei fedeli.

In questo elaborato abbiamo anche sottolineato come gli elementi costitutivi di questa cultura devono molto alla concezione di un mondo interpretato a Bisanzio secondo la filosofia platonica. In questa visione quanto esiste nel mondo corporeo ha il suo modello perfetto nelle idee. La sfera del pensiero indiretto implica una simbolica riconduzione del sensibile alle sue radici celesti. A questa formulazione del trascendente è stata di grande aiuto la mistica dello Pseudo – Dionigi l’Areopagita, come pure la patristica orientale.

La nostra indagine ha preso in considerazione l’arte monumentale. Questa all’inizio non segna una svolta decisiva in quanto Costantino nella costruzione delle chiese adottò in Costantinopoli la struttura della basilica paleocristiana, e le rappresentazioni  pittoriche esprimevano un comune concetto di fede nella giustizia divina e nella salvezza delle anime. Il simbolo non era ancora divenuto un ponte che collegava il terrestre ed il celeste da trasportare l’uno nell’altro. La forma artistica era priva di ogni interpretazione teologica. L’evoluzione significativa si ebbe sotto il regno di Giustiniano. E’ stato, tuttavia, con la dinastia macedone che struttura e decorazione costituiscono un tutto unico, spirituale nel carattere, sacro nell’essenza. Questa forma è divenuta canonica per gli edifici sacri eretti in seguito.

E’ stata anche nostra preoccupazione mettere in evidenza che nel campo della decorazione solo dopo l’ anno 843 lo stile trascendentale diviene realmente trasparente in rapporto alla realtà dell’intelligibile. Tuttavia  in concomitanza si sviluppava anche una visione umanistica che dava all’immagine forza espressiva.  A seguito delle crociate questo movimento artistico è  riuscito ad abbellire di un raggio di gloria l’epoca dei Paleologi.

Per quanto fece in passato e per quanto ha preparato per l’avvenire, Bisanzio merita ancora attenzione ed interesse.

Il patrimonio formale ed iconografico in Costantinopoli dalla sua fondazione all’età di Giustiniano

L’epoca costantiniana

La città di Bisanzio, fondata nel 657 a.C. da un marinaio di Megara-Grecia di nome Byzas, nonostante la magnifica posizione geografica, ebbe una importanza piuttosto scarsa fino a quando Costantino non la scelse come sede della <Nuova Capitale> dell’impero romano intitolandola al suo nome. Dopo aver messo la prima pietra il 20 novembre del 326 vi entrò trionfalmente l’11 maggio del 330.

Nasceva così Costantinopoli alla cui edificazione l’imperatore dedicò cure particolari affinché la < Nuova Roma > sorgesse rapidamente nel segno della grandiosità e della bellezza greco-romana, nonché a somiglianza dell’Urbe sopra sette promontori.

Egli l’adornò di palazzi stupendi: quello imperiale fu costruito con grandi aule  dominate da cupole secondo le usanze orientali; il nuovo Senato ebbe una sede particolare; venne anche creato < l’Auditorium > , un istituto di alta cultura, destinato all’insegnamento della retorica e del diritto; come pure fu abbellita di un ippodromo che era la copia fedele del Circo Massimo Romano. Con la conversione alla religione di Cristo attribuito alla di lui madre, Elena, Costantino intese destinare la sua città ad essere la capitale di un impero cristiano e fare della chiesa un muro maestro dell’edificio imperiale da costituire sotto tale angolazione il primo esempio di cesaropapismo nella storia. Per il mondo che aveva assistito alla nascita della erede di Roma e alla sua ascesi al trono dei Cesari, egli riuscì a diventare < l’isapostolos >, e con le chiese che fece erigere seppe ad essa imprimere un carattere irrefutabile ed eterno. Secondo la testimonianza di Eusebio    ( Vita Const. III,48 ) l’imperatore Costantino ha costruito a Costantinopoli quattro chiese: una in onore di Cristo con il nome di < Sapienza Divina >; la seconda la dedicò a Cristo quale  < Virtù del Padre >,  la terza a lode di Cristo < Portatore della Pace >, ed una quarta intitolata ai <S.S. Apostoli>. Questo tempio è stato distrutto nel sec. XI; non si è conservata alcuna traccia, e si è incerti anche sulla sua ubicazione. Costantino intendeva essere sepolto in questo sacro edificio. La basilica dedicata alla < Sapienza Divina > edificata vicino al palazzo imperiale, è stata appoggiata alla chiesa di S. Irene da fare in modo che i due edifici avessero in comune l’atrio; furono officiate dallo stesso clero e formarono quella che comunemente si chiamò la < Grande Chiesa >.

 La Struttura Architettonica.

Per la costruzione di queste chiese Costantino si servì in modo del tutto ideale e normale della forma architettonica della basilica paleocristiana che si richiama a modelli più antichi: aule per il tribunale e per il  mercato. La pianta è quella di un edificio rettangolare allungato; spesso per agevolare lo svolgersi della processione offertoriale lo spazio circostante all’altare fu ampliato da un transetto. Inoltre per facilitare l’accesso agli altari di quest’ultimo sui quali si disponevano le oblazioni, si aggiunsero due o quattro navate laterali di cui quella centrale fu più alta della altre e coperta da un tetto a due spioventi. Nel punto dove la navata centrale sfociava nel transetto venne costruito anche l’arco trionfale per concentrare lo sguardo dei fedeli sull’altare dove si offriva il sacrificio eucaristico. Dietro l’altare si trovava l’abside a forma semicircolare con la cattedra del vescovo e con i sedili dei presbiteri. L’insieme era preceduto dall’atrio spesso sostituito da un semplice portico che in forma più chiusa venne chiamato anche nartece, ambiente che serviva alle commemorazioni funebri e nella disciplina della chiesa antica era destinato ai catecumeni.

Da questi elementi la basilica paleocristiana si sviluppò come creazione unitaria nella concezione generale, sebbene differenziata secondo le varie province dell’impero romano. A Costantinopoli ed in Grecia questa è divisibile in tre tipi principali: a) in pianta longitudinale; b) in pianta quasi quadrata nel complesso delle tre navate; c) ed in pianta con transetto. Spesso le navate laterali sono sormontate da tribune, dette <matronei> riservate alle donne.

L’iconografia

Per quanto riguarda la pittura monumentale delle chiese fatte costruire da Costantino la decorazione non può avere un esplicito riferimento: questi edifici sono andati distrutti. E’, tuttavia, possibile inquadrarli nelle opere di questo periodo che di preferenza si è servito del mosaico. Bisanzio aveva ricevuto il mosaico dall’arte orientale come elemento di quel sistema policromo pittoresco che grandeggiava in Egitto nel sec. IV. La sua lavorazione era ricca, costosa e lenta ma aveva i suoi vantaggi: era destinata a vivere nel tempo senza subire alterazioni. L’oro veniva profuso abbondantemente sullo sfondo da correggere ogni contrasto che poteva nascere alla vista dello spettatore. Nel mosaico le figure avevano una certa rigidità e freddezza, ma questo elemento si confaceva a personaggi rappresentati immobili, solenni, con un atteggiamento di maestà.

L’espressione artistica che animava queste costruzioni aveva la sua fonte nelle correnti di idee e negli avvenimenti più importanti che i Bizantini avevano del mondo in cui vivevano. A Roma ed a Costantinopoli l’autorità dell’imperatore era assoluta, in essa affluivano e si unificavano i concetti giuridici morali e messianici. Egli era il supremo magistrato a cui il popolo romano aveva affidato l’ufficio di fare le leggi e di farle eseguire; egli era il supremo comandante delle forze armate che dovevano difendere l’impero ma era soprattutto l’Isapostolo, il vicario di Cristo in terra. Come rappresentante della Divinità ed associato ad essa, l’imperatore aveva una duplice funzione civile e religiosa, ed era al di sopra dei sudditi per la sacralità che da Dio discendeva su di lui. Secondo il Grabar, esperto studioso dell’arte bizantina, i principi dell’estetica di questo periodo servivano per rappresentare l’imperatore nei suoi rapporti con Dio e con gli uomini, vale a dire nell’atto di ricevere l’omaggio riverente dai fedeli, oppure nell’atteggiamento di chi si umilia ai piedi della Divinità a cui chiedeva conforto ed ispirazione. Tale concetto imponeva all’arte di non raffigurare l’imperatore con i suoi caratteri fisici, questa era, invece, segnata da una costante volontà di stabilire dei parallelismi con Cristo.

Con l’era costantiniana iniziava una creazione estetica che ha determinato l’arte dei secoli successivi. Con l’esaltazione del potere del <Basilèus> l’arte divenne riflesso dell’onnipotenza Divina. Il concetto che si aveva dell’imperatore, e le relative immagini ideali che se ne ricavavano, influivano nelle rappresentazioni figurative. Tuttavia in queste raffigurazioni si riconosce la tendenza a superare la realtà di questo mondo che si esprime attraverso la progressiva astrazione dello spazio e dei corpi costituiti in maniera più o meno inorganica. Inoltre lo spirito del classicismo antico non mancava di abbellire le scene prestando loro il suo equilibrio e la sua eleganza talvolta anche il carattere idilliaco con la presenza di un paesaggio come pure notevole si presentava il realismo del ritratto. Nonostante questi connotati l’espressione della maestà indicava un chiaro cambiamento del contenuto spirituale, che con un processo che durerà circa due secoli fino a Giustiniano, ha portato l’immagine verso la forma definitiva.

Anche le cerimonie di corte alle quali partecipava il sovrano hanno avuto il loro rapporto con l’arte. Esemplare a questo riguardo è il cerimoniale di ricevimento di un ambasciatore al palazzo della Magnaura. Ricoperto d’oro e di gioielli, immobile, ieratico e simile ad un’icona, l’imperatore appariva seduto sul suo trono d’oro preceduto da sei gradini come quello del re Salomone. Questo era circondato da palme, e da leoni ruggenti in oro, davanti si ergeva un albero di bronzo in cui vi erano uccelli di varie specie, che cantavano ciascuno con la sua specifica voce. Nel momento in cui l’ambasciatore si prosternava, si assisteva ad una sorta di <Ascensione del sovrano> poiché questi si innalzava con il suo trono nell’aria e scompariva attraverso un’apertura del soffitto, apparendo poco dopo con vestiti che destavano maggior ammirazione. La cerimonia evocava l’immagine dell’Ascensione di Cristo che si vedeva effigiata sulle pareti delle chiese. L’arte ed il cerimoniale erano intimamente associati.

  1. L’arte del periodo protobizantino.

La Chiesa Immagine del Cosmo.

In tempi paleocristiani era sembrato soddisfacente la sala longitudinale in cui lo sguardo dei fedeli era automaticamente condotto all’altare. Nell’ambiente bizantino, tuttavia, dove una visione nuova e più trascendente, dominava il mondo intellettuale era necessario qualcosa di particolare e di più fantastico e sembrò di poter sopperire  a questo bisogno con un tipo di edificio che conducesse lo sguardo verso l’alto ed i pensieri verso il cielo. Sia a Roma nel Pantheon come nella sfera mediterranea orientale vi erano già esempi di architettura a cupola ed a volta, che soddisfacevano queste richieste. L’effetto della copertura a volta, infatti, è dotata di un richiamo fantastico e poetico assente nel semplice tetto di legno delle basiliche, come pure l’uso della cupola. La particolarità dell’architettura bizantina consiste nell’aver perfezionato l’associazione di queste due forme, dando così origine ad uno stile immaginoso e completamente organico.

A partire dal VI secolo Bisanzio con queste innovazioni diede alle proprie chiese una forma originale, innestando la cupola nell’impianto basilicale. Un importante contributo a questa struttura è pervenuta dalla mistica dello Pseudo – Dionigi l’Areopagita del sec. VI, questa portò a riconoscere nella chiesa una realtà capace di simboleggiare l’universo (P.G.3, 1000 B). L’edificio sacro venne considerato una specie di microcosmo con il cielo sopra e la terra sotto (Is. 66, 1).

(continua sul prossimo numero)

L’eredità di giustiniano (527-565).

La Cattedrale della Sapienza Divina.

Il modello più famoso di questa nuova arte si ebbe sotto il generoso patronato di Giustiniano nella chiesa di S. Sofia di Costantinopoli. Codesto edificio sacro fu ricostruito per la terza volta da Giustiniano dal 532 al 537 in proporzioni maggiori e con un tale fasto da eclissare per magnificenza ogni altra chiesa dell’impero. Il santuario, infatti, eretto da Costantino, nel 404 sotto Arcadio è andato distrutto per un incendio scoppiato in seguito a un rivolta originata dall’esilio di S. Giovanni Crisostomo. Fu riedificato da Teodosio II nel 415 ma, il 13 genn. del 532, quinto anno di regno Giustiniano, per la tragica insurrezione  detta dei Vittoriani <NIKA>, causata da una violenta esplosione delle consuete rivalità del circo, andò ancora una volta a fuoco con parte del palazzo imperiale ed alcuni quartieri della città. A soli quaranta giorni dalla distruzione, Giustiniano poneva la prima pietra del tempo ed iniziava i lavori. Furono fatte espropriazioni costosissime per dare più ampio spazio e respiro alla nuova costruzione. Numeroso fu il personale assunto tra manovali, muratori e mosaicisti. Per edificare la basilica che è stata giudicata il massimo prodigio dell’architettura nel mondo, Giustiniano per accrescere la sua bellezza, spedì in giro i suoi esperti d’arte con l’incarico di requisire quanto di meglio fosse reperibile. In ragione di questa ricerca di materiali rari e preziosi in tutte le regioni dell’impero, otto colonne di porfido rosso furono sottratte al tempio egiziano di Heliopolis; marmi, argenti ed oro a quelli di Efeso e Delfi; alabastri e giade a monumenti dell’Eubea.

Artemio di Tralle ed Isidoro di Mileto progettarono la nuova Santa Sofia. Per ovviare ai frequenti movimenti sismici fu ideato sotto la platea un vasto sistema di cisterne colme di acqua con pilastri costruiti direttamente sulla roccia e collegati tra di loro con sbarre di metallo. Per la cupola vennero importati da Rodi mattoni di estrema leggerezza. Il monumento fu inaugurato il 27 dic. 537. Giustiniano ringraziò pubblicamente Dio, pronunziando, con lo sguardo rivolto al cielo, le seguenti parole: Grazie o Signore, per avermi consentito di realizzare questa chiesa che supera tutti i monumenti eretti da Salomone. Lo storico Procopio (De Aedificis I, 1, 70) attribuì la costruzione all’Onnipotente: <chiunque entra per pregare comprende subito che quest’opera non può essere stata compiuta da alcuna forza o abilità umana bensì dal favore di Dio>. Anche il funzionario di corte, Giovanni il Silenzioso ne descrive la bellezza con le seguenti fulgide parole: <chiunque mette piede entro il sacro tempio, vorrebbe vivere li per sempre e dai suoi occhi sgorgano lacrime di gioia>.

Il 14 dic. 557 un terremoto fece precipitare la cupola. Giustiniano incaricò per la ricostruzione  Isidoro il Giovane, nipote di Isidoro di Mileto. Questi terminò i lavori entro un anno. Rese la cupola più alta di trenta piedi e per diminuire la spinta in fuori, rinforzò i pilastri con muri addossativi.

La grande chiesa anche nella sua dedicazione <Divina sapienza> per le sue dimensioni, la perfezione tecnica, la bellezza e lo splendore dei materiali impiegati rimane una realizzazione essenziale dello spirito bizantino. Tuttavia per il senso di romanicità e universalità della cultura della Madre Patria, e nel tentativo di riunificazione dell’impero, Giustiniano fa suo per l’edificio di S. Sofia il modello architettonico della basilica paleocristiana a pianta longitudinale con tre navate che si armonizza con le sovrastrutture: la cupola  poggia su pennacchi e la monotonia della fila di colonne  viene interrotta da pilastri. I connotati del nuovo stile ben evidenziano l’effetto simbolico della chiesa quale specchio della creazione divina del mondo. In questa concezione anche il tetto a capriate trova la sua esatta sostituzione nell’uso della volta. Questa decisione è stata anche consigliata dall’esperienza dell’estrema pericolosità delle coperture a capriate in caso di incendio. Giustiniano aveva avuto la conferma nella sedizione <Nika> del 532 che distrusse gli edifici più belli della capitale.

Nell’intento di descrivere i particolari di questa prodigiosa opera, la prima attenzione merita la cupola elemento caratterizzante della sinassi liturgica bizantina. Questa si eleva al centro della navata centrale fino a 65 metri con un diametro di 33 e con una lunghezza di 75. I pilastri la collegano ad altrettanti archi, chiusi a destra ed a sinistra da due colonnati sovrapposti, quello superiore costituiva il prospetto del matroneo. Nell’alto della cupola in un cielo azzurro, cosparso di stelle d’oro era raffigurata una gigantesca croce, simbolo trionfale di Cristo. Nella parte inferiore dell’abside si trovava il trono del Patriarca riccamente ornato. La cupola e le volte costituivano un’unica vasta distesa luminosa, coperta da mosaici a sfondo d’oro, su cui si muovevano i protagonisti della storia della salvezza. L’oro si trovava dappertutto in una quantità incredibile in quanto secondo le fonti rappresentava la luce divina o più precisamente le energie divine le sole accessibili agli uomini. Il pavimento era di marmi policromi mentre lastre di porfido, di alabastro e di altre pietre preziose rivestivano la zona inferiore delle pareti. Questo rivestimento policromo di marmi e mosaici  aveva lo scopo di nascondere lo scheletro della costruzione e sciogliere in colore e luce la materialità delle pareti. A tale effetto era subordinato anche lo scarso rilievo plastico dei cornicioni.

Molti di questi mosaici vennero messi allo scoperto in occasione di vasti restauri ordinati dal sultano Abdul-Megid e diretti dal 1847 al 1849 dall’architetto ticinese G. Fossati. A seguito di questi lavori i mosaici furono liberati dalle venature di calcio restaurati e poi ricoperti con tele. Il sultano Kemal Ataturk nel 1934 destinò S. Sofia a museo d’arte bizantina, autorizzando così iniziative per rimettere in luce la sua decorazione musiva. L’opera di restaurazione assunta dall’istituto bizantino americano fin dal 1931 è tuttora in corso.

Va, inoltre, precisato che varie sono le epoche a cui appartengono i mosaici. Brani del Teofane attestano che la chiesa di S. Sofia dopo la ricostruzione del 562 fu decorata da Giustino II (565-578). I lavori furono affidati con molta probabilità ad un certo Eulalio che una poesia di Teodoro Prodomo lo colloca tra i <principi della pittura>. La decorazione comprende un ciclo di scene tratte dal nuovo Testamento. In queste raffigurazioni il Cristo ha nella mano sinistra un libro aperto con la scritta in greco: <Pace a tutti; io sono la luce del mondo>. A sinistra si prostra un imperatore nimbato con le mani in atto di supplica. L’immagine di Cristo è collocata tra il busto della Vergine nella parte sinistra ed un angelo al lato opposto. L’interpretazione porta a ritenere che l’imperatore prega o implora, la Vergine intercede e l’angelo, anonimo sta a tutela della chiesa.

Il programma iconografico venne completato tra il 986 ed il 994 da Basilio II (976-1025). Il mosaico della lunetta del vestibolo meridionale mostra la Madonna assisa sul trono. Essa sostiene con la mano sinistra il Bambino, mentre gli appoggia la destra sulle spalle. Ai lati del nartece riverenti e nimbati sono raffigurati due imperatori, Costantino il grande e Giustiniano. Il primo si avvicina alla Vergine reggendo nelle mani il modello della sua città, l’altro, invece, Le porge quello di S. Sofia.

Nella presente galleria meridionale furono eseguite altre decorazioni che per lo stile, i costumi ed il contenuto appartengono ad epoche successive. La prima di queste mostra ai lati di Cristo nimbato, come si rileva dall’iscrizione, l’imperatrice Zoe (1028-1050) ed il marito Costantino IX Monomaco (1042-1054). Il sovrano viene rappresentato anziano e coronato mentre Zoe tiene in mano un rotolo legato. Il secondo quadro musivo reca al centro la <Theotokos> in piedi con il Bambino in braccio. Alla sua destra viene ritratto l’imperatore Giovanni Comneno (1118-43), mentre al lato opposto l’imperatrice Irene; la raffigurazione fu eseguita nell’autunno del 1118 per la loro ascesi al trono. Dopo qualche anno il medesimo ignoto artista aggiunge l’immagine di Alessio Comneno (1081-1118).

Pur in presenza della bellezza estetica di un’arte che parla al cuore, va rilevato che la più grande delle innovazioni che caratterizzano S. Sofia è la sua architettura interna a differenza dei templi classici come il Partenone e delle basiliche come il vecchio S. Pietro o Santa Maria Maggiore a Roma. L’esterno è indubbiamente maestoso ed imponente, ma è all’interno dove S. Sofia appare in tutto il suo fulgore; qui si lasciano alle spalle tutti i pensieri terreni ed esiste soltanto lo spirito che tende fino al cielo. Secondo l’insegnamento cristiano è la vita interiore che ha veramente importanza non la facciata esterna, e la decorazione interna fu concepita secondo tale ideologia.

Per quanto la chiesa di S. Sofia rappresenti un capolavoro irripetibile, unico nel suo genere, nell’ambito del territorio bizantino non poche sono le basiliche che ne riproducono la maestosità e la bellezza; alcune di fondazione giustinianee, altre, invece, appartengono ad epoche successive.

Ravenna sede dell’Esarcato bizantino in Italia ci fornisce gli esempi più importanti: S.Vitale, Sant’Apollinare in Classe, Sant’Apollinare Nuovo sono opere paragonabili alle migliori produzioni della nuova capitale. La chiesa di San Demetrio di Salonicco di circa un secolo dopo, come pure quella di Dafni, vicino ad Atene con la loro altissima qualità attestano l’opera di artisti di corte. Nello stesso tempo anche i mosaici di questi edifici sacri si ricollegano alla pittura monumentale di Costantinopoli nelle sue due categorie di fondi d’oro e di luce immateriale con la concezione dello spazio che tende a scomparire.

LA CHIESA DEI DODICI APOSTOLI.

Di carattere completamente diverso è il secondo edificio monumentale dell’epoca, la chiesa dei santi Apostoli che è andata perduta, ma della quale ci si può fare una idea in quanto la chiesa di S. Giovanni ad Efeso ne è una imitazione. I bizantini, infrangendo la tradizione della basilica orientale fatta a volte con mura cieche, si misero ad erigere chiese a pianta cruciforme, cioè a forma di croce con le quattro braccia di uguale grandezza, ed una cupola centrale nel mezzo, ed altre cupole su ciascun braccio laterale. Nacque così un nuovo tipo di edificio: la chiesa a cinque cupole. La chiesa dei Santi Apostoli fatta costruire da Giustiniano e Teodoro fu accettata e considerata come esempio perfetto del nuovo stile.

Dei mosaici fatti eseguire da Giustiniano non si conserva alcuna traccia. Secondo fonti già citate per la chiesa di S. Sofia anche questa è stata decorata da Giustino II, e l’artista è lo stesso Eulalio già accertato per la decorazione di S. Sofia.

A sua volta Sergio Bettini scrive che i veneziani per la basilica di San Marco tolsero alla chiesa dei dodici apostoli sia lo schema dell’architettura che della decorazione.

LA CHIESA DEI SANTI SERGIO E BACCO.

La chiesa dedicata ai santi Sergio e Bacco fu uno dei primi edifici costruiti sotto il regno di Giustiniano tra il 527 ed il 536. Questa è mensionata per la prima volta negli atti del Sinodo di Costantinopoli del 536. Accanto ad essa, da quanto si può dedurre da Procopio (Da aedificiis, 1, 4) poco tempo prima era sorta un’altra chiesa intitolata ai Santi Pietro e Paolo. I due edifici vennero così ad avere in comune l’atrio ed il nartece e dipendevano da un unico igumeno. Sempre da Procopio si evince che la chiesa de Santi Pietro e Paolo distrutta dopo poco tempo della sua erezione era a forma basilicale. La chiesa dei Santi Sergio e Bacco, invece, oggi convertita in moschea è giunta fino a noi in buono stato di conservazione. Questa presenta una costruzione a pianta ottagonale a due piani, coperta da una cupola ed inclusa in una base quadrata, su un lato della quale sporge un piccolo presbiterio mentre nel lato di fronte si apre un nartece trasversale. L’originale concezione architettonica di questa chiesa trova un valido riscontro nella chiesa di S. Vitale a Ravenna, anche questa costruita sotto il patronato di Giustiniano. Va, tuttavia sottolineato che per quanto l’edificio della sede dell’Esarcato presenti una struttura a fine, questo si differenzia per avere un presbiterio più ampio e l’ottagono interno racchiuso da una base ottagonale invece che quadrata. Inoltre nella cupola di piccola proporzione, la chiesa dei S.S. Sergio e Bacco riflette un tipo di mausoleo romano legato alla tradizione delle chiese erette in onore dei Martiri come Santa Costanza a Roma (324-326).

Per quanto riguarda la decorazione architettonica gli scultori di Giustiniano hanno ideato un sistema che non seguiva più i vecchi motivi. Capitelli e cornicioni hanno uno stile del tutto nuovo. Il basso rilievo ed il disegno quasi astratto sostituiscono l’alto rilievo ed il naturalismo dei tempi classici. Anche la decorazione musiva ha un carattere più simbolico e si fonde con la concezione spaziale dell’edificio. Gli elementi vegetali continuano ad essere alla base della composizione, tuttavia, l’accento è posto sul disegno che queste formano e non sul loro accostamento alla natura. Secondo la tradizione questa chiesa è stata sempre frequentata dagli imperatori per la loro devozione. La conferma si ha da una lunga descrizione a lettere cubitali sulla trabeazione inferiore. Su questa fascia del pregio viene scolpito l’elogio di Giustiniano a S. Sergio che lo venera come suo particolare protettore e di sua moglie Teodora.

LA CHIESA DI S. IRENE.

La chiesa di S. Irene intimamente connessa con S. Sofia, ne condivise in certo qual modo le vicende. Piccolo santuario ancor prima che Bisanzio fosse eretta a capitale, tanto da essere distinta con l’appellativo <antica> da altre costruzioni più tardi con lo stesso titolo venne ingrandita dall’imperatore Costantino. La denominazione non comporta la dedicazione ad una Santa di nome Irene, ma, come S. Sofia, fu ispirata dallo stesso concettosi glorificare Dio e di riflesso l’imperatore nelle sue varie manifestazioni. Nel 360 questa funzionava da cattedrale in Costantinopoli, ma aveva nello stesso tempo in comune con S. Sofia, l’atrio ed il clero, si da costituire quasi un unico santuario denominato <la grande chiesa>. Non sfuggì quindi neppure questa all’incendio del 532 a seguito della insurrezione di Nika. Fu, per tanto compresa nel piano di ricostruzione di Giustiniano ed ebbe proporzioni grandiose, inferiori solo a quelle di S. Sofia. Nell’incendio del 564 non subì alcun danno, fu, invece, duramente provata dal terremoto del 740 regnante Leone III Isaurico. Non si sa esattamente quando la chiesa venne ricostruita; comunque questa era troppo importante per essere dimenticata. A giudicare dai mosaici privi di figure il restauro dovette essere compiuto mentre perdurava l’influenza iconoclasta. La decorazione musiva, infatti,si riduce a motivi ornamentali geometrici e floreali. In seguito l’edificio non ha subito altre sostanziali modifiche. I turchi non la convertirono in moschea, ma ne fecero un arsenale bellico oggi museo di armi. La chiesa di S. Irene ci è quindi sostanzialmente pervenuta nella veste che assunse alla metà del sec. VIII.

La chiesa, preceduta dall’atrio e dal nartece ha la forma di una basilica con due cupole che si elevano sulla navata centrale; quella verso l’abside ha un diametro più grande, mentre l’altra leggermente più piccola copre un’area ad ovest della prima, in precedenza vi era una sola. Entrambe poggiano su pilastri di mattoni che sostituiscono alcune delle colonne della normale basilica a tre navate. L’idea di alternare un pilastro a tre o quattro colonne per conferire maggior stabilità alla costruzione, in una zona dove i terremoti erano frequenti, era stata già applicata in Oriente in alcune basiliche con copertura lignea come ad esempio in S. Demetrio a Salonicco del sec. VII. A queste trasformazioni si aggiunge l’intervallo di un passaggio a volta, con cui inizia la curva dell’abside, poligonale all’esterno, mentre all’interno vi addossa un’alta gradinata per il clero. L’architetto in questo modo riuscì a creare una pianta che sopperiva alle esigenze della fede cristiana in quanto offriva spazio più che sufficiente all’assemblea dei fedeli, ed una degna sede per la liturgia con la presenza di una copertura che conferiva splendore alla costruzione, suggerendo ai partecipanti della volta celeste che il pensiero esoterico di Bisanzio esigeva.

Questa forma architettonica fu sviluppata ulteriormente della chiesa delle Cento Porte nell’isola di Paros, anch’essa risalente al tempo di Giustiniano.

L’ESPRESSIONE ARTISTICA.

Per quanto si riferisce all’arte figurativa formatasi nel sec. VII-VIII l’estetica bizantina ha mirato con successo a superare i limiti dell’immaginazione umana. Si trattava, infatti, di un’arte destinata a rispondere alle esigenze spirituali e didattiche della chiesa, per cui non poteva essere una semplice copia dei modelli del passato. La pittura bizantina, per tanto, per corrispondere al contenuto dogmatico ed ai concetti teorici che nutrivano sempre più la nuova religione generalmente molto imbevuta di neoplatonismo, sfoggiava sulle superfici murali delle chiese grandi composizioni subordinate alle esigenze di un determinato ritmo, oppure figure isolate sempre più svuotate di consistenza materiale, il tutto rappresentato in uno spazio trascendentale si che la figura umana, che è rimasta sempre al centro dell’interesse, diveniva mezzo per raggiungere mete sublimi che la svincolavano dalla realtà di questo mondo. In questa dimensione i rapporti della pittura bizantina con la realtà si presentano convergenti entro i limiti delle due direzioni della somiglianza e della differenza di tale realtà. La somiglianza è requisito assolutamente essenziale in quanto questa si riporta in maniera immediata al termine trascendente, nel medesimo tempo il soggetto rappresentato non assomiglia del tutto al prototipo, diversamente l’immagine non sarebbe una cosa e l’Archetipo un’altra. Secondo questa visione per quanto l’immagine non possegga tutte le proprietà di ciò che rappresenta, tuttavia, nella misura in cui ha alcuni elementi in comune, conserva il suo specifico potere semantico, che è quello di indicare direttamente anche una realtà sensibile, e ciò attraverso alcuni aspetti specifici esteriori di forma, di colore e di volume.

La convergenza di queste due esperienze nella fruizione di una medesima opera non deve far dimenticare la loro profonda diversità. Inoltre mentre la somiglianza al prototipo spiega nella misura in cui è possibile lo spirito conservatore nella pittura bizantina, la forma artistica, a sua volta, orientata all’espressione sensibile la priva dal pretestuoso concetto di uniformità, senza lasciar cadere la creazione estetica in una fantomatica realtà. L’arte bizantina al tempo di Giustiniano ha conosciuto la sua <prima età d’oro>.

CAPITOLO II

L’ICONOCLASTIA E IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE.

  1. I SEGNI PRECURSORI DEL DIVIETO DELLE RAFFIGURAZIONI.

Nonostante la tendenza alla decorazione trascendentale, l’uso esterno del monogramma imperiale, gli occasionali alberi della vita e le solenni iscrizioni lungo i muri delle chiese, i motivi ornamentali geografici e floreali, ed i grandi paesaggi con architetture pittoresche vengono a proporre un tipo di decorazione astratta radicata già dal sec. VI nella religione dell’impero d’Oriente. Durante il regno di Giustiniano un vescovo aveva fatto togliere dalla sua chiesa una tappezzeria su cui era ritratta la figura di Cristo; fino al 726 quasi tutte le monete anche se portavano l’immagine dell’imperatore sul rovescio, avevano dall’altro lato una croce ma non la testa di Cristo. In effetti si temevano sempre i pericoli dell’iconoclastia di cui parlava spesso il vecchio Testamento.

Nel periodo pre-iconoclastico nel grande pavimento del palazzo dell’imperatore di Costantinopoli si riscontrano mosaici con alberi. In altre composizioni vengono riprodotti panorami di città e villaggi. Nel catino dell’abside sullo sfondo d’oro spesso troviamo una croce delineata in nero senza il corpo di Cristo, né presenza di fiori, né di angeli. Questa croce per la sua fredda raffigurazione non rispecchia pienezza e vivacità di spirito religioso, testimonia, invece, una mentalità rigida e senza emozioni. Non è la croce del ritorno glorioso del Cristo ma quella dell’ultimo giudizio.

  • LA LOTTA DELLE IMMAGINI.

La svolta si ebbe nel 726, anno in cui l’imperatore Leone III l’Isaurico (717-741) proibì ufficialmente la rappresentazione delle immagini divine nell’arte sacra. Questa tendenza presente da molto tempo negli ambienti alti della capitale, trovava una valida accoglienza soprattutto nelle regioni orientali dell’impero influenzate dal giudaismo e dall’islamismo. Le decisioni dogmatiche elaborate nel concilio di Efeso del 431 ed in quello di Calcedonia del 451 venivano messe in discussione. Ad aggravare l’opposizione delle raffigurazioni concorsero anche pratiche superstiziose ed idolatriche.

La questione era antica; la religione ebraica non diversa dalle altre religioni monoteistiche è caratterizzata da una netta avversione verso ogni immagine scolpita o dipinta in quanto mette in pericolo il culto di Dio unico ed invisibile, a cui il popolo ebreo era esposto per la sua mentalità ancora primitiva e per la vicinanza con le popolazioni idolatriche. Anche per i musulmani la contrarietà va attribuita all’incapacità di rappresentare la natura invisibile di Dio. Tra l’altro per questi l’arte non figurativa: gli arabeschi, le decorazioni poligonali, rafforzano la nozione della trascendenza di Dio. Alla decisione del concilio di Calcedonia del 451 che aveva definito le due nature di Cristo unite e distinte, gli iconoclasti fanno valere il seguente ragionamento: <Poiché Gesù Cristo è nello stesso tempo Dio e uomo dipingendo la sua umanità, o la separate dalla Divinità ed allora siete dei veri nestoriani e dividete il Cristo, o altrimenti siete monofisiti perché cercate di circoscrivere la Divinità che non può essere circoscritta e la fate scomparire nell’umanità> (Mansi XII-XIV).

La proibizione del culto delle immagini provocò una lunga e sanguinosa lotta durata fino all’843, con una breve tregua (787-813) durante la quale fu ripristinata la devozione degli adoratori. In questo lungo periodo un gran numero di capolavori inestimabili venne distrutto, le pareti delle chiese furono raschiate e per far scomparire gli affreschi religiosi; fu imposta un’altra decorazione fatta a base di ornamentazione floreale, e geometrica. Si colpiva nella sua essenza l’arte bizantina che era essenzialmente cristiana, sviluppatasi su motivi religiosi.

Al tempo degli iconoclasti le vecchie decorazioni rappresentative furono tolte ed al loro posto furono sistemate quelle aniconiche. Una decorazione del genere esiste tuttora nell’abside principale della chiesa di Sant’Irene di Costantinopoli dove la figura della croce sostituisce una pittura della Vergine con il Bambino. Un’altra croce simile fu posta in Santa Sofia a Salonicco sotto il patronato dell’arcivescovo Teofilo tra il 780 ed il 797 che ritraeva nell’abside l’immagine della Vergine che venne ripristinata nell’886 . La medesima sostituzione avvenne per l’icona della Madonna nella conca absidale della chiesa della Dormizione di Nicea del sec. VIII, che andò distrutta nel 1922.

  • LA LEGITTIMAZIONE DELLE IMMAGINI NELL’ARTE SACRA.

Alle argomentazioni degli iconoclasti che si consideravano i difensori della purezza del dogma cristologico ed alla rigida interpretazione della legge mosaica <non ti farai scultura né immagine alcuna di ciò che è nel cielo in alto o nella terra in basso> (Es. 20, 4), gli iconoduli non l’ha intesero in senso assoluto. Lo stesso Mosè, infatti, fece fondere un serpente di bronzo in segno di salvezza e collocò due cherubini d’oro sull’arca dell’alleanza. Più tardi Salomone non esitava a decorare il tempio di Gerusalemme con sculture di cherubini, leoni, tori, palme.

Con l’incarnazione che costituisce il nucleo della rivelazione cristiana la proibizione dell’antico Testamento non ha più ragione di essere nella misura in cui viene a cessare il suo motivo principale. Il Dio invisibile si è fatto visibile, rivelandosi nella forma umana del Verbo incarnato (Giov. 14, 9).

La giustificazione dell’immagine sacra fatta dai Padri greci e dal settimo concilio di Nicea del 787 contro i ripetuti attacchi degli iconoclasti si fonda principalmente sul mistero dell’incarnazione e sul parallelismo tra la rivelazione scritta e la sua illustrazione figurativa. Il Figlio è immagine del Padre in quanto possiede la sua medesima natura divina. Se la natura umana di Cristo non è una fallace apparenza, se essa è ipostaticamente congiunta nell’unità della persona dell’Uomo-Dio, alla natura divina è oramai possibile una rappresentazione figurativa e sensibile, non puramente simbolica, di Dio.

Va precisato che la capacità della rappresentazione sensibile di indicare immediatamente l’invisibile realtà divina di Cristo non accade mediante la confusione delle due nature, ma in virtù dell’unione ipostatica e del potere iconico, il quale, per quanto non possieda in comune con l’oggetto rappresentato che le qualità sensibili, si riferisce direttamente alla totalità dell’essere raffigurato, alla sua unità morale. Essa, inoltre, non può essere puramente simbolica come nelle religioni monoteistiche, prive del dogma dell’incarnazione, né puramente oggettiva e rappresentativa come nelle religioni idolatriche o politeiste. Tutti gli avvenimenti narrativi hanno, infatti, un carattere storico, non mitico, testimoniato dall’indole della narrazione evangelica e della continuità vivente della tradizione, ed insieme trascendente la storia.

Questo duplice carattere deve immediatamente trasparire nel prendere forma dell’esperienza cristiana in un’opera d’arte. L’arte cristiana è essenzialmente un’arte umano-divina.

Nonostante la conservazione di preziosissime reliquie tra le quali la famosa immagine di Edessa  accompagnata da una lettera autografa con la quale Gesù avrebbe inviato il proprio ritratto al re Abgar,  contenente la promessa di Cristo di visitare il re per guarirlo (Eusebio: Historia eccl. I, 13), e l’icona di Kamulia in Cappadocia dipinta in lino e che presenta Cristo come <Pantokrator>, l’immagine fisica dell’Uomo-Dio non ci è stata storicamente tramandata.

La mancanza di una rappresentazione lascia libero campo all’interpretazione artistica, alla sua ispirazione religiosa. Il tipo iconografico di Cristo non nasce, pertanto dal tentativo di una fedele ricostruzione storica anche se simili tentativi non sono mancati con risultato per lo più infelice, ma dalla devota interpretazione che il sentimento cristiano ha elaborato lungo i secoli.

Questa concezione è servita a premunire l’arte cristiana da un eccessivo realismo, accentuando la necessità di una stilizzazione formale. Il carattere sacro dell’iconografia bizantina, che costituisce la sua più importante qualificazione stilistica, nasce appunto da un avvertito senso della trascendenza divina. Il Cristo dell’arte cristiana, non è il Cristo della storia, intesa in senso puramente oggettivo e storiografo, ma piuttosto il Cristo della fede che scopre il significato trascendente degli stessi eventi storici e li rende suscettibili di una trasfigurazione artistica.

  • GLI ASPETTI CARATTERIZZANTI DELLA PITTURA.

Con l’incarnazione l’immagine ha trovato la sua forma definitiva. I dipinti, soprattutto dopo l’iconoclastia non sono manifestazioni della capacità creativa dell’artista, non una sua meditazione individuale ma espressione della dottrina del Prototipo. Ciò vale in modo particolare per le iconi di Cristo e della Vergine. Cristo è, soprattutto, il <Logos> che si è fatto carne per la nostra salvezza: i suoi attributi, il suo gesto di benedizione, il libro, i colori delle vesti e soprattutto l’aureola con la scritta: <Io sono colui che sono> esprimono il mistero del <Pantokrator>. Egli è Dio e uomo e regna sull’universo. A sua volta la definizione del concilio di Efeso del 431 della Vergine quale <Theotokos> mette in risalto una ben formulata ideologia religiosa. La Madre di Dio, benché creatura umana, è quasi chiusa entro la divinità.

Anche lo stile che si è sviluppato dopo il VII concilio di Nicea, realizza in termini più espressivi un equilibrio tra l’eredità dell’arte antica e l’ispirazione ad un linguaggio figurativo capace di tradurre in immagini il mondo intellegibile e l’etica dell’ascesi che diviene il riflesso terreno. La linea si fa più morbida, i gesti aggraziati, e le curve frequenti, lo sfondo d’oro  assume ancora più importanza. L’evoluzione di questa nuova tendenza trascendentale e completamente spirituale mira al superamento del sensibile. Le figure umane, che acquistano maggior rilievo, vengono poste frontalmente ed hanno un valore più per la composizione ritmica che per la naturalezza della loro raffigurazione.

CAPITOLO III

Il PERIODO DEGLI IMPERATORI MACEDONI E COMNENI

(869-1024).

  1. IL TRIONFO DELL’ORTODOSSIA.

Dopo la controversia iconoclasta nell’arte che si costruisce a Bisanzio sotto la dinastia macedone prende precisa forma il concetto della chiesa quale replica in scala minore dell’universo, palazzo di Cristo sovrano. In questa identificazione il programma iconografico diviene un sistema rappresentativo di profonda connessione tra l’architettura e la decorazione pittorica in funzione di un simbolismo che intende descrivere l’opera divina della creazione e della redenzione. Nella realizzazione di questa evocazione era anche necessario l’elaborazione di una struttura che è stata riscontrata nella pianta a croce greca inscritta. In questa concezione dell’edificio sacro, come mezzo di comunicazione con il sovrasensibile, la cupola al centro dell’incrocio delle navate non è la vasta area di quella di S. Sofia; rimpiccolita su un tamburo sempre più elevato è diventata una specie di gobba, dove la figura dello spazio tende ad assumere ellenicamente un valore quasi plastico. La spinta della cupola si trasmette ai muri laterali attraverso le volte a botte che prolungano i quattro arconi che la reggono e designano all’esterno la croce greca. L’architettura di Bisanzio viene così staccata dalla sua radice paleocristiana. Il primo e più famoso esempio di chiesa di questo tipo è la <Nea> di Basilio I (867-886) oggi scomparsa, fondata entro i confini del grande palazzo, chiamata in questo modo per la profonda impressione che suscitava nei Bizantini dell’epoca.

E’, infatti, in questo edificio che per la prima volta si presenta nella sua connessa integrità l’ordinamento decorativo, che doveva divenire poi canonico nei secoli in tutte le chiese bizantine. Nella cupola (chiesa celeste) si vedeva il Cristo Pantokrator e demiurgo, circondato dalle gerarchie angeliche; nei pennacchi i quattro evangelisti; nell’abside (passaggio dalla chiesa celeste a quella terrestre) la Vergine in atto di preghiera e di intercessione; nelle navate (chiesa terrestre) le <Grandi Feste>: rappresentazioni del racconto evangelico dall’Annunciazione alla Pentecoste; nelle rimanente figure di patriarchi, profeti, martiri e santi.

  • EDIFICI SACRI COSTRUITI SECONDO IL MODELLO  DELLA <NEA>.

A Costantinopoli per quanto una volta esistessero molte chiese edificate secondo i criteri della <Nea>, attualmente non ne resta alcuna nel suo stato originale. Quella del <Pantokrator> (1126-1136) è un edificio composto da tre chiese affiancate, quello di <Santa Maria Panacrantos> ha una tipologia che si presenta doppia con una galleria laterale e nartece esterno.

Fuori dalla città imperiale questo ordinamento dogmatico e canonico si può vedere riflesso nella chiesa principale del monasterio di Hosios Lukas nella Focide-Grecia (998-1055) decorata dopo la morte del monaco Nicone (998), di cui si conserva il ritratto.

La cupola ridipinta nel sec. XIX era occupata dal Pantokrator circondato da quattro angeli, dalla Vergine e dal Battista, mentre sedici profeti si ergevano nel tamburo. Nell’abside si trovava la Vergine in trono con il Bambino. Immersa nell’immenso sfondo d’oro, Ella ricordava al fedele che la Madre di Dio è, nella gerarchia celeste, la prima dopo il Cristo. Al di sopra, nella conca del vima, figurava la Pentecoste. Questa è un’invenzione sapiente e felicemente concepita, poiché il sacerdote si trova sotto questa calotta durante la preghiera dell’epiclesi; egli domanda al Signore di inviare lo Spirito Santo al fine di trasformare in corpo ed in sangue di Cristo il pane ed il vino della comunione.

A quest’epoca il numero delle cene evangeliche si limita all’essenziale, solamente quattro grandi feste figurano nelle trombe della chiesa: l’Annunciazione, la Natività, la Presentazione al Tempio ed il Battesimo. Nel nartece sono raggruppati gli avvenimenti che illustrano la morte e la resurrezione di Cristo: Crocifissione, discesa al Limbo, Lavanda dei piedi, l’incredulità di Tommaso.  Il Cristo è raffigurato morto sulla croce al fine di dimostrare chiaramente la realtà e le conseguenze della sua incarnazione. La Vergine e San Giovanni sono i testimoni della sua doppia natura e non manifestano altro che raccoglimento. Il colle del Golgota con il cranio di Adamo sotto i piedi del Crocifisso rimanda alla redenzione, mentre il sole e la luna al di sopra della croce implicano la partecipazione delle forze cosmiche all’avvenimento. Nella parte sud del nartece appare un ciclo dell’infanzia della Vergine. Numerosi santi in piedi ed in busto ornano le pareti della chiesa. Infine, nella cripta, si trovano scene delle Grandi Feste e della Passione, la Dormizione della Vergine e dei ritratti di santi, dipinti da differenti artisti provenienti da una scuola locale con uno stile espressivo.

I personaggi tarchiati ed austeri di questi mosaici esprimono alla perfezione l’ideale di rigore e di elevazione spirituale dei Bizantini. Le composizioni statiche, dominate dalla linea ritmica, formano dei gruppi compatti che l’artista proietta sullo sfondo d’oro al quale viene riservato molto spazio. Le architetture sono ridotte al minimo, lo spazio terreno ed i movimenti risultano inesistenti, in modo tale che la storia della salvezza si svolga nell’eternità, nel mondo divino.

I mosaici della <Nea Moni di Chio>-Grecia- sono stati probabilmente commissionati dall’imperatore Costantino IX Monomaco (1042-1056). Questi come nella chiesa di Hosios Lukas sono caratterizzati da una stilizzazione delle forme.

Il programma corrisponde alle regole dell’epoca. Nella cupola a nove scomparti che poggia su una base ottagonale il Pantokrator è attorniato da nove angeli che ricordano i nove ordini angelici dello Pseudo -Dionigi-l’Areopagita. I pennacchi sono occupati dagli Evangelisti. La Vergine orante figura nella catino absidale, mentre il ciclo delle Grandi Feste ed alcune scene della Passione sono poste nelle otto conche sotto la cupola e sulle superfici elevate dell’edificio, la cui parte inferiore è rivestita di marmo.

Nella crocifissione che segue il testo di Giovanni (19, 25) l’ impassibilità dei personaggi è scomparsa e questi sono divenuti numerosi. A sinistra Maria di Cleofa e Maria Maddalena, volte l’una verso l’altra come per condividere il proprio dolore, avvicinano al viso le loro mani velate, gesto che già nelle opere antiche esprimeva la tristezza. A destra il centurione indica il crocifisso, mentre la Vergine manifesta una certa tenerezza nei confronti del Figlio nella scena della deposizione dalla croce accostando la mano alla propria guancia; quanto al corpo di Cristo questo appare come quello di un cadavere. A Chio non viene tradita alcuna espressione del sentimento. Il gusto per la presentazione drammatica si manifesta  in numerose scene quali la discesa al Limbo in cui ben corrisponde la violenza che la rottura delle porte dell’inferno richiede.

Presso Atene la decorazione della chiesa della Dormizione di Dafni (1080) rappresenta l’opera più completa dello stile bizantino. Questi mosaici riflettono il gusto degli ambienti dell’aristocrazia e degli eruditi di Costantinopoli. Certamente erano pittori della capitale bizantina quelli che operavano a Dafni.

In profondo accordo con l’architettura e l’articolazione dello spazio interno, questi mosaici costituiscono un insieme organicamente coerente il cui programma iconografico è tradizionale.

Nella grandissima cupola della chiesa a pianta rettangolare, infatti, si vede imponente nella sua grandiosa maestà la figura del Pantokrator, che è ritenuta la miglior interpretazione di tutti i mosaici che riproducono il Potentissimo. Non si tratta della concezione di un Cristo che vede simboleggiate nella sua figura le sofferenze dell’umanità. La sua rappresentazione è simile ad un giudice inflessibile, alla maniera del Geova del vecchio Testamento.

Fortemente impressionato da questa visione il cristiano cerca un po’ di aiuto ed eleva lo sguardo verso l’abside. In questa conca  si vede il mosaico di Gesù incarnato, seduto sulle ginocchia della Madre. Nella contrapposizione delle immagini il fedele prova grande sollievo nel constatare la misericordia di Dio, dopo aver visto la sua terrificante maestà.

La volta del vima è occupata dall’Etimasia: il trono preparato per la Seconda Venuta di Cristo. Le Grandi Feste formano in questo santuario un vero e proprio ciclo di dodici scene che seguono l’ordine cronologico del vangelo: Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione di Cristo al Tempio, Battesimo, Trasfigurazione, Resurrezione di Lazzaro, Ingresso Gerusalemme, Crocifissione, Discesa al Limbo, alle quali si aggiunge la Dormizione della Vergine nel nartece.

Questo sviluppo del ciclo delle Grandi Feste testimonia la propensione alla narrazione. Il desiderio di raccontare è una concezione di tipo umanistico in rapporto alla austerità del passato. Questo desiderio è ancora accentuato a Dafni dalla presenza del racconto apocrifo dell’infanzia di Maria che decora il nartece. La Dormizione della Vergine sulla parete occidentale della chiesa conserverà generalmente questa posizione anche in avvenire. Alla scena del Cristo che trasporta l’anima della Madre, e gli Apostoli riuniti attorno al capezzale di Maria, si aggiungono ora tre santi vescovi: Dionigi l’Areopagita, Giacomo fratello del Signore e vescovo di Gerusalemme e Timoteo. Il ciclo della vita di Maria non corrisponde ad alcun testo canonico ma a racconti apocrifi. La comparsa di queste immagini sta ad indicare un fenomeno chiamato a svilupparsi ulteriormente: la crescente espansione del culto mariano e la sua incidenza nell’iconografia.

  • L’UMANESIMO BIZANTINO IN MACEDONIA ED IN UCRAINA.

Il programma del XII secolo più ricco per novità di soggetti, e che rende testimonianza di un approfondimento teologico e simbolico del discorso pittorico,è incontestabilmente quello della Santa Sofia di Ocrida, in Macedonia,  eseguito verso il 1040, dopo che la città, recuperata dai Bulgari era divenuta di nuovo bizantina. Essa era la sede di un arcivescovato autocefalo dipendente direttamente dall’imperatore.

Il donatore è un personaggio eminente della capitale bizantina che ha lasciato la sua impronta su questo ciclo decorativo. Si tratta dell’arcivescovo di Ocrida, Leone, amico personale del patriarca Michele Celurario. Grazie all’erudito committente si trova qui per la prima volta una forte accentuazione del tema dell’eucarestia che occupa praticamente tutto il vima.

La conca absidale mostra la <Theotokos> in trono mentre tiene sul petto uno scudo su cui è effigiato il Bambino. Si tratta del tipo iconografico della Vergine detta Nikopea. Nel secondo registro si vede una comunione degli Apostoli di genere particolare. Non vi è rappresentata, come di solito, la distribuzione delle Sacre Specie agli Apostoli, ma l’atto immediatamente precedente a questa distribuzione, l’invito fatto dal diacono ai fedeli <accostatevi con timore di Dio, con fede e con amore>.

Nel terzo registro si ergono i santi vescovi, visti frontalmente ed immobili. La volta del vima comprende l’Ascensione: Cristo appare in una <gloria> retta da quattro angeli; sotto su ciascun lato si trovano gruppi di apostoli che ammirano l’evento. Sulle pareti laterali del vima due schiere di angeli convergono verso il centro dell’abside e si inchinano dinanzi alla Theotokos e al Bambino. Sotto questo insolito corteo si dispiegano due soggetti unici: San Basilio il Grande che celebra l’ufficio eucaristico e l’apparizione di Cristo a San Giovanni il Teologo. Il simbolismo eucaristico di queste rappresentazioni è ancora sviluppato dalle scene dell’antico testamento che prefigurano la comunione. Il sacrificio di Abramo che annuncia il sacrificio volontario di Cristo, è rappresentato di fronte all’ufficio eucaristico celebrato da San Basilio. A fianco di quest’ultima scena compare Giovanni Crisostomo. Il Cristo sta a fianco del santo dormiente, e pone un rotolo nelle sue labbra aperte, conferendogli in tal modo lo straordinario dono oratorio che gli valse l’appellativo di <bocca d’oro>.

Altri episodi veterotestamentari del vima prefigurano la resurrezione, come i tre Ebrei nella fornace (Dn.3) e alludono, inoltre, al mistero della Trinità. Il medesimo significato simbolico è attribuito all’ospitalità di Abramo (Gn.18) in cui i tre angeli, seduti attorno ad un tavolo, vengono nutriti da Abramo e Sara. A queste rappresentazioni bibliche se ne aggiunge una terza, il sogno di Giacobbe: questi è addormentato ai piedi di una scala sulla quale salgono e scendono degli angeli (Gn.28, 12-13).

Nella prothesis e nel diakonikon, erano rappresentate delle scene agiografiche, i cui protagonisti erano particolarmente venerati a Costantinopoli.

L’iconografia della prothesis mostra un ciclo di immagini relative al martirio dei quaranta soldati romani distanziati a Sebaste -Armenia- per essersi convertiti al cristianesimo, mentre nel diakonikon sono riprodotti episodi della vita del Battista tra i quali si possono riconoscere il banchetto di Erode, la prigionia e la decollazione del Santo.

Del ciclo delle Grandi Feste che decorava il santuario, si sono conservate solo la Natività e la Dormizione della Vergine. Nel nartece compaiono, tra le altre, due scene rare: l’Ascensione del profeta Elia, trasportato vivo in cielo, ed i sette Dormienti di Efeso. La leggenda racconta come sette giovani, avendo rifiutato di rinnegare la propria fede furono nascosti ed addormentati miracolosamente per secoli, quindi risvegliati da Dio e riaddormentati. Questo racconto veniva interpretato come una prefigurazione della resurrezione degli uomini. Infine al di sopra dell’ingresso occidentale del nartece, la Madre di Dio con il Bambino viene presentata seduta direttamente sul suolo, raffigurazione insolita nel mondo bizantino.

Lo stile di queste pitture oscilla tra un trattamento delle forme schematiche e la ricerca di un rilievo plastico.

Contemporaneamente alla Santa Sofia di Ocrida, decorata da artisti costantinopolitani, la chiesa che porta il medesimo nome a Kiev costituisce anch’essa un caso di grande interesse. Il principe Jaroslav il Saggio fece venire dei maestri da Bisanzio che lavorarono alla Santa Sofia di Kiev, aiutati da maestranze russe. La decorazione fu eseguita tra il 1046 ed il 1067.

 La cupola centrale dipinta in mosaico presenta il Pantokrator, accompagnato da quattro angeli, gli Apostoli nel tamburo, e gli Evangelisti nell’atto di scrivere raffigurati nei pennacchi. I mosaici dell’abside sono ben conservati e conformi alle regole iconografiche stabilite a Bisanzio. La Vergine orante reca un fazzoletto bianco attaccato alla cinta. La Comunione degli Apostoli nel secondo registro adotta lo schema consueto con l’immagine di Cristo che distribuisce le specie, questa termina sull’arco del vima con le figure di Aronne e di Melchisedek che prefigurano il sacerdozio e la funzione messianica di Cristo. Sempre nel secondo registro dell’abside si allineano anche i santi padri della chiesa. Al di sopra degli archi centrali compaiono quattro ritratti in busto dei quali soltanto quelli della Vergine e di Cristo-sacerdote sono conservati. La sommità dell’arco trionfale mostra le scene della vita della Madonna secondo il racconto del protoevangelo di Giacomo, un apocrifo molto in voga a Bisanzio.

Nelle altre parti dell’edificio sono dipinte sedici scene della vita di Cristo: la Natività, la Presentazione al Tempio, il Battesimo, la Trasfigurazione, Lazzaro, l’Entrata in Gerusalemme, il Giudizio dinanzi a Caifa, il falso giuramento di Pietro, la Crocifissione, la Deposizione dalla Croce, l’Anastasi, le Pie donne al sepolcro, l’incredulità di Tommaso, la missione degli Apostoli, la Pentecoste, la morte della Madonna con l’ultima apparizione di Cristo sulla terra. Questo ciclo è teofanico e storico. Sono ancora visibili alcuni episodi veterotestamentari come l’ospitalità di Abramo ed il sacrificio di Isacco.

La tromba delle scale e le tribune dove la famiglia reale prendeva posto durante l’ufficio divino sono decorate da rappresentazioni uniche nella pittura bizantina. Vi si vedono delle scene della vita di corte: i giochi dell’ippodromo con musicanti, saltimbanchi, ballerini e scene di caccia. Questo complesso costituisce una preziosa testimonianza sulla decorazione dei palazzi della capitale, e sulla vita quotidiana in Costantinopoli.

Bisognerà, tuttavia, attendere gli affreschi di San Panteleimonos a Nerezi, vicino a Skoplje in Macedonia perché l’espressività emotiva si generalizzi ed appaia sotto una forma pienamente sviluppata. Questo edificio sacro fu costruito da Alessio Comneno nel 1164, circa 100 anni dopo l’epoca in cui il metropolita Leone aveva fatto adornare la sua chiesa di Santa Sofia in Ocrida. Le pitture del santuario di Nerezi ci permettono di cogliere le dimensioni della più importante innovazione del secolo: la rappresentazione dei sentimenti che oramai vengono attribuiti ai personaggi sacri. Lo stile di cui l’artista si è servito diviene, infatti, personale e di grande effetto. Questi mette tutta la sua abilità nella rivelazione di un’impronta dal carattere individuale delle figure. Le scene, pertanto, non portano tracce dell’antica austerità bizantina, sono, invece, qualificate da un acuto senso di dolore e da movimenti drammatici.

Le inquietudini provocate dal dramma divino si riscontrano chiaramente dagli affreschi della deposizione del Cristo dalla croce e dal lamento di Cristo morto. Commovente è la tenerezza con la quale la Madonna appoggia sulla sua guancia materna la testa del Figlio morto, mentre Nicodemo, in piedi sulla scala, tiene il corpo fortemente piegato verso la Madre per facilitare così a Giuseppe d’Arimatea il gesto di tirare fuori i chiodi dai piedi di Cristo.

Ancora più commovente è la scena del <Threnos> sul Cristo morto. L’artista disegna e dipinge le persone con assoluta incuranza delle proporzione umane e della legge della gravità, è unicamente intento ad esprimere il sentimento, da lui voluto, di immenso dolore. Per raggiungere questo scopo contorce i lineamenti del viso della Madonna, che avvicina quanto più possibile a quello di suo Figlio in una maniera, umanamente impossibile.

Mette il corpo di questo sdraiato tra le gambe aperte della Madre, seduta in terra, con le labbra appoggiate sul seno.

Molti studiosi sottolineano che l’autore con il suo dipinto per l’importanza attribuita all’incarnazione dopo la distribuzione del culto delle immagini, intende evidenziare che i gesti di affetto nei confronti di Cristo stanno a dimostrazione della sua natura umana.

Vale anche la pena di sottolineare che nel tondo dell’abside si vede al di sopra di una bella finestra triconca, la liturgia celeste ed al di sopra di questa, all’altezza dell’altare della chiesa l’Etimasia. Accanto a questa con i piedi quasi sul pavimento quattro padri della chiesa con le rispettive diciture nelle mani. A destra ed a sinistra dell’abside centrale, sono le due absidiole delle navate laterali. In una di queste si vede nel catino la figura di San Giovanni accuratamente disegnata come a Dafni; nell’altra la Vergine orante.

Nella navata della chiesa sono conservate abbastanza in alto otto scene della vita del Signore e due di quella di sua Madre. Al di sotto, si trovano in grandezza quasi naturale su una lunga fila molti santi. E’ da notare anche

una bella icona affrescata, dentro una cornice di colonne e marmi, del santo titolare della chiesa, cioè di San Panteleimonos.

  • IL MONDO ORIENTALE IN SICILIA ED A VENEZIA.

Le caratteristiche della pittura bizantina del sec. XII per il prestigio della sua arte sontuosa e perfetta hanno contribuito alla sua espansione fuori dei confini dell’impero ed i laboratori della capitale hanno trovato un largo campo di attività. I più grandi complessi si sono conservati in Sicilia nelle chiese che i Normanni fondarono.

La cattedrale di <Cefalù> fu iniziata sotto il regno di Ruggero il più famoso re normanno nel 1131, ma il presbiterio venne ultimato solo nel 1148. I mosaici furono messi in opera poco dopo ed ultimati verso il 1170. Il pezzo più pregevole è il grande busto del Pantokrator nella conca dell’abside, figura che in un edificio bizantino avrebbe occupato la cupola centrale. Il Cristo tiene in mano Vangelo aperto con un iscrizione bilingue greca e latina: <io sono la luce del mondo chi segue me non si perderà mai nelle tenebre, ma avrà la luce e la vita> (Gv. 8, 12). Secondo molti esperti d’arte il volto maiestoso di Cristo e la sua taglia gigantesca e spirituale fanno pensare all’energie divine che a giudizio degli iconoduli, dovevano manifestarsi nelle immagini.

La Madre di Dio orante e quattro arcangeli con abiti imperiali, con il <labarum> ed il globo occupano il secondo registro, mentre i dodici apostoli sono distribuiti sugli altri due registri. La volta del presbiterio comprende un complesso di forze angeliche: Serafini, Cherubini ed Angeli.

Quanto allo stile la distribuzione armoniosa delle figure sullo  sfondo d’oro, il disegno sapiente e la bellezza della gamma cromatica si fondono in un trattamento grafico ben accentuato.

La <Cappella Palatina> fondata da Ruggero II nel 1130, consacrata nel 1140, e decorata tra il 1143-1189 faceva parte della residenza imperiale di Palermo. Questa fu dedicata a San Pietro e la maggior parte dei mosaici sono stati eseguiti tra il 1143 e il 1148. Questi sono opera di scuole diverse: le immagini sono eleganti, gli abiti ricchi e fluenti, la tecnica è eccellente con sottili gradazioni nelle sfumature e nei colori. Nella cupola già dall’inizio è raffigurato il Pantokrator seduto in trono, circondato da otto arcangeli in abito di corte, mentre nell’abside è stata collocata l’ immagine di Cristo-Dio incarnato nel tempo. La parete occidentale della navata è occupata da Cristo in trono tra gli apostoli Pietro e Paolo. Tra le immagini delle Grandi Feste, la Natività è particolarmente sviluppata poiché include non solo l’adorazione dei Magi, ma anche il loro viaggio ed il bagno del Bambino. Sulla parte elevata delle pareti della navata mediana si susseguono delle scene che illustrano episodi della Genesi, dalla creazione del mondo fino alla lotta di Giacobbe con l’angelo. Nella navate laterali gli episodi del Vecchio Testamento non si limitano solo a quelli che prefigurano l’Eucarestia; l’ebbrezza di Noè e la storia di Rebecca sono ben illustrate. I mosaici nel loro insieme manifestano uno stile di transazione che oscilla tra l’aspetto trascendentale tipico dell’arte bizantina e quello espressivo dal carattere piacevole.

La <Martorana> in Palermo fu costruita in onore della Vergine dall’ammiraglio Giorgio d’Antiochia e decorata a sue spese tra gli anni 1143-1151. Nato da genitori siro-greci ad Antiochia in Siria, questi nel 1112 venne in Sicilia dove ben presto si mise al servizio di Ruggero II morto nel 1154.

 La chiesa ha una pianta tipicamente bizantina. La cupola è occupata da una rara immagine del Pantokrator in trono circondato da quattro angeli. La Natività sulla volta sinistra del quadrato centrale presenta una composizione dallo stile astratto. La scena dell’Annunciazione e della Presentazione al Tempio rivelano una visione  umanistica che caratterizza l’arte bizantina del sec. XII. A sua volta la concezione ieratica del sec. X è molto marcata in due mosaici del nartece che raffigurano l’incoronazione di Ruggero II e la consacrazione della chiesa della Vergine da parte del suo fondatore, l’ammiraglio Giorgio d’Antiochia. L’incoronazione segue gli schemi bizantini. La figura del re è grande quasi come quella del Cristo, dal momento che questi con l’incoronazione assume la vice-reggenza in terra. Nella scena dell’incoronazione, invece, l’ammiraglio è presentato prostrato dinanzi all’immagine della Vergine. Nel suo linguaggio plastico si vuole da un lato accentuare l’importanza del sovrano e dall’altro marcare il distacco tra la figura umana e quella divina, tra il mondo spirituale e quello materiale.

La cattedrale di <Monreale> (1185-1190), a pochi chilometri Palermo presenta un vasto edificio ornato in tutta la sua estensione con mosaici e tarsie in marmo. I mosaici furono eseguiti sotto il patrocinio di Guglielmo II ed il loro stile si distingue per una predilezione verso gli abiti drappeggiati, i movimenti dinamici, e per una intensità di espressione. Il programma si ispira in gran parte a quello della Cappella Palatina. Nell’abside il Pantokrator è seguito dalla Madre di Dio in trono con il Bambino, affiancata da due angeli e dai principi degli apostoli Pietro e Paolo. Nella volta del vima prende posto l’Etimasia. Gli episodi della Genesi si dispiegano lungo la navata centrale, così come il ciclo evangelico che comprende numerose immagini delle apparizioni di Cristo dopo la sua resurrezione. Infine due ritratti di Guglielmo II occupano i pilastri orientali. Nel primo il re offre il modello della chiesa alla Vergine mentre sull’altro egli viene incoronato da Cristo; alcuni angeli gli pongono le insegne della sovranità: il <labarum> ed il globo.

Tra i centri di inserimento bizantino del sec. XII va annoverata anche la basilica di S. Marco a Venezia con le sue cinque cupole. Quella occidentale vicino all’entrata comprende la Pentecoste, completata da figure d’angeli sui pennacchi di sostegno. Nella cupola centrale è raffigurato il Salvatore sull’arcobaleno con un cielo stellato, il cui orlo è sostenuto da quattro angeli volanti. In seconda fila si vedono le figure degli apostoli e quella della Vergine con a lato due angeli. Nella cupola orientale spicca nell’alto l’Emmanuele, al di sotto la Vergine con tredici profeti. Nella cupola del braccio settentrionale sono riportate cinque scene della vita di San Giovanni Battista. Quattro episodi della vita di Cristo: la tentazione del demonio, l’ingresso in Gerusalemme, la lavanda dei piedi e l’ultima Cena occupano la volta meridionale della cupola centrale. Lo stile che si presenta è più narrativo che trascendentale, la composizione è rigida e formale, gli elementi stilistici che caratterizzano la rinascita del secolo XII, vale a dire gli atteggiamenti vivaci le figure allungate, i drappeggi fluttuanti sono poco presenti. Inoltre il tavolo dell’ultima Cena nelle opere di pura produzione bizantina è semicircolare, mentre nel mosaico di San Marco è del tipo rettangolare in uso presso i latini. Elementi di origine occidentale si riscontrano anche nelle frasi prese dalla Sacra Scrittura per spiegare il senso delle scene che sono scritte in latino.

I mosaici del nartece risalgono al sec. XIII. Trattano dei fatti narrati nel libro della Genesi dalla creazione del mondo fino al tempo della vita di Mosè prima del suo soggiorno sul monte Sinai. Gli studiosi  sottolineano che nella pittura ecclesiastica monumentale conservatasi sul territorio dell’impero bizantino, queste scene del vecchio testamento non sono riprodotte. Di conseguenza quest’opera musiva non è un prodotto della autentica  mentalità bizantina, si può chiamarla tutt’al più bizantineggiante.

  • LA CONSOCIAZIONE TRA ARCHITETTURA E PITTURA.

Nel <secondo periodo aureo> dell’arte bizantina, che vide i suoi albori alla fine del sec. IX con la dinastia macedone, ebbe inizio il movimento che ricevette dagli storici d’arte il nome di <Rinascimento Macedone>. Questa tendenza era diretta a ricuperare quanto era stato fatto precedentemente. Inoltre la sacralizzazione delle immagini con il settimo concilio ecumenico del 787, l’importanza attribuita all’incarnazione, la concezione più perfezionata dell’edificio sacro quale microcosmo, ed il significato simbolico delle sue parti, hanno consentito di definire un programma iconografico estremamente coerente con la  decorazione delle chiese, che non sarà completamente evidente prima del sec. XI e XII. Un’altra conseguenza di rilievo ad opera dell’incarnazione va riscontrata nell’umanizzazione delle immagini e nella comparsa di nuovi temi.

In relazione a questa visione dottrinale nelle catino dell’abside la Vergine, strumento dell’incarnazione, diviene un tema quasi obbligatorio; di conseguenza, al centro della cupola, il  Pantokrator, immagine di Cristo a mezzo busto, benedicente ed onnipotente,  prende il posto della croce. Egli è rappresentato qui come Signore del mondo ed Imperatore celeste, protettore dei suoi fedeli; è circondato dagli angeli la sua guardia celeste, seguono gli  apostoli o i profeti disposti lungo il tamburo, mentre nei pennacchi stanno gli evangelisti intenti a scrivere.

Per la presenza di nuovi temi, in modo particolare quello liturgico, nel secondo registro dell’abside compare la comunione degli apostoli in cielo, con il Cristo officiante che distribuisce l’eucarestia ai discepoli come durante l’ultima cena.

Verso la fine del sec. XI, ma soprattutto a partire del sec. XII nel terzo registro compaiono i vescovi rivolti verso il centro dell’abside con nelle mani dei rotoli sui quali si leggono alcuni brani dei loro scritti. Da questa decorazione emerge con evidenza che questi stanno celebrando l’ufficio divino. Le due scene diventano complementari con l’intento di indicare come la liturgia terrena avesse a modello quella celeste, celebrata per l’eternità da Cristo in cielo.

Gli episodi evangelici più importanti, detti il ciclo delle Dodici Feste, si dispiegavano sulle volte  e nella parte più alta dei muri, mentre il ciclo della Passione ancora molto limitato era più in basso; i santi si allineavano nel registro più vicino al pavimento.

Durante l’epoca <rinascimentale> lo stile ornamentale di tipo astratto che costituisce una delle glorie artistiche del periodo macedone lascia ampio spazio alla tradizione ellenistica. La prima maniera in cui appare questa corrente ideologica, aggiunge a scene puramente cristiane, figure di ispirazione classica come la <notte>, il <mattino>, la <montagna>, la <melodia>, il <bosco>. La seconda maniera usa senza timore per la riproduzione di soggetti sacri prototipi pagani: Davide che compone i salmi appare quasi indistinguibile da Orfeo. Nella terza maniera la figura umana diviene in qualche modo plastica, le misure del corpo umano ed i movimenti delle membra diventano corrispondenti alla realtà naturale.

Questi stili, tuttavia, ebbero vita breve. L’arte di questo periodo è caratterizzata da decorazioni che non hanno alcun rimando alla realtà di questo mondo. Le immagini diventano simboli proiettati nell’eternità della luce divina.

L’arte del periodo medio della storia bizantina non fu affatto uniforme in relazione allo stile. Nel sec. XII esistevano decisamente due: uno lineare e severo l’altro dotato di maggior umanesimo e forza espressiva. I personaggi sacri, prima impassibili e sereni ora provano sentimenti umani. Gesù crocifisso non è una novità, ma la curva a livello delle anche si è accentuata, e le braccia divenute più tese tradiscono il dolore fisico, mentre la Vergine e San Giovanni manifestano il proprio dolore. D’altra parte il ciclo della passione si arricchisce di nuove immagini come la deposizione dalla croce ed il lamento della Vergine sul Cristo morto. Questa scena di dolore non si ispira ai vangeli canonici che non ne parlano, ma agli apocrifi, scritti intorno al IV secolo, ed alla poesia liturgica. La maggior parte di questi inni è stata composta nel VI secolo da Romano il Melode, ma il bisogno di tradurre tali versi in immagini non si era manifestato prima.

Nel XII secolo la celebrazione eucaristica ebbe un notevole sviluppo che portò ad introdurre nuove composizioni all’interno del santuario. Si cominciò con il rappresentare l’Etimasia, il trono preparato per la seconda venuta di Cristo, al centro del secondo registro dell’abside tra due schiere convergenti di vescovi. Questa aprì la via a quello che sarebbe stato il tema definitivo in questa collocazione: <l’Agnello immolato>. Questa immagine è stata anche chiamata <Melismos> con riferimento alla frazione del pane durante la preparazione delle sacre specie.

Contemporaneamente alcuni nuovi cicli, diffusi finora solo in qualche zona, si fanno sempre più frequenti. Si tratta dell’infanzia di Cristo narrata nei vangeli e di quella della Vergine, derivata da testi apocrifi. Quanto alla scena della Dormizione della Vergine, essa segue sempre più fedelmente i racconti apocrifi, le omelie di San Giovanni Damasceno e di altri teologi che descrivono come Cristo, accompagnato dalla sua guardia celeste, venne a cercare l’anima di sua madre presso la quale vegliavano gli apostoli; erano stati gli angeli a portare sulle nubi i discepoli che erano dispersi ai quattro angoli della terra a predicare la nuova novella. Nello stesso periodo, grazie al fiorire della letteratura agiografica, si formano ampi cicli sulle vite dei santi.

Il giudizio universale, già raffigurato in precedenza, ebbe una vera diffussione solo nel XII secolo. Le scene vengono tratte dal vangelo di Matteo (Mt. 25, 31-46; 19, 28-29), da quello di San Luca (16, 26) e dall’Apocalisse di San Giovanni (1, 7).

Appartiene a questo ciclo anche le <Deesis>, immagine della preghiera di intercessione che Giovanni e Maria rivolgono a Cristo invocando il perdono del genere umano, che spesso occupa buona parte dell’iconostasi. Questa, oltre a segnalare la linea di confine tra il santuario ed il corpo della chiesa, rappresenta la divisione tra il mondo spirituale e quello materiale, ed i pannelli dipinti assumono il carattere di una finestra aperta sulla sfera sovrannaturale.

La presenza del sentimento nel mondo del sacro non compare solo nelle rappresentazioni della Passione, ma anche in quelle della Madonna con il Bambino nelle quali si manifesta la tenerezza. Una delle prime opere di questo genere è l’icona della Vergine di Vladimir, ora nella galleria Tretiakov di Mosca dipinta a Costantinopoli probabilmente intorno al 1125. L’antica posa ieratica della Hodegitria dove la Madre è rivolta verso il Figlio o quella ancora più impersonale del tipo Nikopea, dove il Bambino appare su un medaglione, è stata sostituita da una raffigurazione che esprime maggior intimità. In questa visione umanistica il Bambino cinge il collo della Madre premendola con la guancia, mentre la Vergine presenta un atteggiamento di tristezza perché prevede la passione del Figlio che le era stata preannunciata da Simeone al momento della presentazione di Gesù al tempio (Lc 2, 34-35).

CAPITOLO IV

LA  RINASCITA  DELL’ARTE  BIZANTINA  AL TEMPO DEI  PALEOLOGI.

  1. LO SMEMBRAMENTO DELL’IMPERO BIZANTINO.

L’ultima fase dell’arte bizantina, quella della restaurazione dei Paleologi, particolarmente significativa, denominata <terzo periodo aureo> comprende gli ultimi quarant’anni delle XIII sec., tutto il sec. XIV e la prima metà del sec. XV. Questa rinascita è legata alla conquista di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204, che ebbe come prima conseguenza la profonda trasformazione della configurazione del mondo orientale. Con la perdita di Bisanzio i Greci non furono completamente sconfitti: alcuni membri della famiglia imperiale si sono stabiliti in piccoli rami, uno nella lontana Trebisonda, vicino al Caucaso. In questo periodo questa città era una delle più belle dell’Oriente ed aveva uno dei mercati più grandi del mondo.

L’impero di Trebisonda durò a lungo poiché la dinastia dei Comneni riuscì a sopravvivere in libertà fino alla conquista turca del 1461.

A sessanta miglia in linea retta da Costantinopoli nasceva il reame di Nicea, il quale consolidandosi nel tempo, diede a Michele VIII Paleologo l’opportunità nel 1261 di rientrare nella nuova capiltale che Costantino inaugurò l’11 maggio del 330.

In questo periodo le dimensioni dell’impero erano assai ridotte, la situazione economica tutt’altra che soddisfacente, ma nonostante queste precarie condizioni, a Bisanzio fu ripreso il modo di vita degli antichi imperatori bizantini. Nobili ed intellettuali si raccolsero intorno alla corte sfarzosa, mantenendo uno stretto legame con il patriarca e la chiesa, per cui anche nel campo artistico ebbe inizio un’era nuova che portò altra gloria e nuova fama alla tradizione bizantina.

Tra questi diversi centri di cultura intellettuale ed artistica va anche annoverato il despotato di Mistrà, situato sui monti del Peloponneso. Nel sec. XIV questa città era governata da uno dei figli più giovani dell’imperatore che prese il nome di tiranno. Per quanto Mistrà fosse divisa da Costantinopoli non solo da una distanza considerevole, ma anche da un certo numero di territori latini indipendenti, ha sempre conservato uno stretto legame con la capitale. Durante la dinastia paleologa fu centro di una corte brillante, vero focolaio di ellenismo ed umanesimo, rifugio della esigua nazionalità greca. Nel 1460 cadde in mano dei Turchi.

Nello smembramento dell’impero va anche inserito il despotato dell’Epiro con capitale la città di Arta.

    B-LA FORMA ARCHITETTONICA.

Con la restaurazione dell’impero sotto i Paleologi nel 1261, venne di moda un nuovo stile architettonico caratterizzato da interni piccoli e raccolti, dalla presenza di strette cupole poggianti su un alto tamburo, e dal gusto delle decorazioni degli esterni. L’inizio del XIV secolo fu particolarmente attivo e ci restano numerose chiese erette intorno all’anno 1310. In Grecia, come nella chiesa dei Santi Apostoli a Salonicco (1312-1315), quale forma di decorazione esterna fu ampiamente usato un lavoro ornamentale in mattoni. A Costantinopoli prevalse, invece, l’elaborata successione di archi. Altra caratteristica di questa età è data dall’uso di cupole a coperture delle cappelle laterali e delle strutture aggiunte,come nella chiesa dei Santi Apostoli a Salonicco. Questo stile del XIV secolo si presenta molto originale: piuttosto piacevole che imponente. In Mistrà diversi edifici sacri si riportano a questa struttura architettonica.

Va tuttavia rilevato che le più belle e le più grandi chiese erette secondo questo modello si trovano sul monte Athos, dove le comunità monastiche conservarono una notevole prosperità economica che permise loro lavori su vasta scala. Le cupole multiple sugli alti tamburi, le facciate con serie di archi e semicupole usate qui comunemente per le coperture dei transetti costituiscono una delle grandi attrattive dei monasteri dell’Athos, specialmente viste dalle torri o dalle finestre di stanze costruite a un livello superiore, come spesso accade nei monasteri eretti sul pendio scosceso di una collina. Spesso gli esterni di queste chiese athonite sono intonacati e colorati poi in tinte chiare.

Questo tipo di costruzione si diffuse anche nei giovani stati di Bulgaria e Serbia, dove i governanti cercarono di rivendicare la propria indipendenza con atti di patronato.

     C-GLI EDIFICI SACRI DEL PERIODO DELLA RINASCITA.

A Costantinopoli si può ammirare la produzione della restaurazione  Paleologa nel suo pieno fulgore nella chiesetta di Kahriè-giamì del 1310, attigua al monastero di <Terra dei Viventi>. I mosaici di questa cappella si sono conservati quasi integralmente nei due narteci, invece, solo in parte nel <naos>. La decorazione rappresenta un vero capolavoro.

Di carattere al quanto popolaresco e narrativo, invece, si presentano gli affreschi del <Pareccleseion>, vano aggiunto alla chiesa. L’edificio kahriè-giamì fu restaurato da Giustiniano e ricostruito sotto Alessio I Comneno (1081-1118) grazie alla munificenza della suocera di Alessio Maria Ducas. Dopo la conquista latina la chiesa ebbe bisogno di restauri. Quest’opera fu intrapresa da Teodoro Metochite, morto nel 1331, a quel tempo logoteta del tesoro imperiale e più tardi consigliere capo dell’imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328).

Sulle volte e sulle lunette dell’esonartece i mosaici raffigurano scene della vita di Cristo e nel nartece scene della vita della Vergine desunte dai vangeli canonici ed apocrifi. Nelle cupole si trovano i busti del Cristo e della Vergine circondati da profeti. Gli archi sono ornati con figure di santi. Vi è poi un busto di Cristo nella lunetta sovrastante la porta d’ingresso; di fronte è raffigurata la presentazione della Madonna con il Bambino tra due angeli. Sui due lati del presbiterio si trovano: a sinistra un grande pannello di mosaico con il Cristo Pantokrator, a destra un altro pannello con la figura della Vergine con il Bambino. Su quest’ultimo mosaico fu aggiunto in seguito un timpano scolpito in cui è affrescato un busto del Cristo Pantokrator.

Le scene della vita di Gesù e della Theotokos sono presentate con una straordinaria libertà di espressione; è evidente il contrasto con le austere e riservate riproduzioni del potere divino ed imperiale della chiesa di Santa Sofia.

I mosaici della chiesa di Kahrè-giamì hanno come tema quello di mostrare che Cristo è l’aiuto degli uomini in tutte le difficoltà.

Nello scudo centrale delle due piccole cupole dell’esonartece il busto del Pantokrator non viene raffigurato come il rappresentante della maestà divina come a Dafni ma nei suoi elementi ideologici di Uomo Dio. La serie degli antenati di Cristo ci mette in presenza di persone sacre che si ricollegano alla nascita di Cristo come Salvatore degli uomini. Anche nell’arco di un muro dell’esonartece la figura di Gesù benedicente, con a destra sua Madre in atteggiamento di preghiera stanno a dimostrare che la Madonna intercede presso il Figlio.

I temi dell’ornamento del nartece si pongono nella stessa dimensione.

I mosaici della Madonna e quelli della vita di Cristo mostrano sempre l’aiuto, che Iddio ha dato in situazioni disperate, così quando nacque la Madonna da genitori anziani; quando si cercava uno sposo per lei; quando fu liberata quasi in extremis dal sospetto di Giuseppe mentre si recavano a Betlemme. Della vita pubblica di Gesù, vediamo soprattutto i suoi miracoli per guarire malati e risuscitare morti ma anche la sua vittoria sul demonio durante le tentazioni nel deserto.

Non vi è dubbio che questi mosaici vogliono dimostrare che Cristo-Dio è l’aiuto degli uomini in tutte le loro difficoltà.

Come nei due narteci della Kahriè-giamì, anche nel <Pareccleseion>, il ciclo degli affreschi costituisce la grande gloria di questa cappella. Nel catino dell’abside è raffigurata l’anastasis che nel caso specifico non sembra significare tanto la resurrezione di Cristo, quanto piuttosto la liberazione delle anime dei giusti detenute nel Limbo sotto la dominazione del demonio. Nel credo nicenocostantinopolitano questo avvenimento fa parte del <deposito della fede>. In questa rappresentazione vediamo Cristo scendere nell’Ade nella pienezza della sua divinità, tenendo in mano la croce segno della sua vittoria. La sua travolgente divinità emerge anche dalla sua candida veste che comporta lo stesso indimenticabile bianco della sua Trasfigurazione sul monte Tabor. Per sottolineare la discesa di Cristo nel Limbo per portare alla luce della vita le anime che lo aspettavano da secoli, sull’arco antistante l’abside viene raffigurata la resurrezione della figlia di Giairo e quella del figlio della vedova di Naim. Questi affreschi riprendono in maniera splendida il tema dei mosaici dei due narteci della chiesa:  quello della potenza di Dio nel salvare gli uomini dal male e dalla morte.

Lo stesso argomento è ripreso in un’altra forma negli affreschi dell’articolato sotto l’unica cupola di questa cappella. In questo luogo si vedono scene del vecchio testamento, che mostrano l’aiuto misericordioso che Dio ha prestato al suo popolo eletto ed ai Santi di quel tempo. Queste immagini sono una documentazione storica della volontà salvifica di Dio.

Sul muro di destra è rappresentata l’apparizione di Dio durante la consacrazione del tempio di Gerusalemme, fatta dal re Salomone e dall’altra parte la scala di Giacobbe quando Iddio lo consolò nel sonno durante la sua fuga. Sullo stesso affresco è collocata la lotta del patriarca con l’angelo che finì con la benedizione impartitagli da quest’ultimo. Appaiono inoltre nel tondo dell’arco i giudei che pregano Dio, mentre alla destra del reticolato un angelo che distrugge l’esercito degli Amaleciti. Questi affreschi sono tutti molto consolanti.

Nell’alto di una cupola finta si vede uno scudo con l’immagine della Madonna, mentre nel tondo dodici angeli in piedi le fanno seguito. Nei quattro angoli sono dipinti quattro santi che cantano le lodi alla Vergine: S. Giovanni Damasceno, S. Cosma, ed i due innografi Giuseppe, nipote del Damasceno, e Teofane.

In questa cappella il tema dominante della decorazione consiste nella lode alla maestà di Dio, che soccorre gli uomini, associato a quella della Vergine, Madre del Verbo incarnato.

Il monastero di Kahriè-giamì non è l’unico monumento d’arte costantinopolitana di questo periodo. Esistono mosaici della stessa epoca e dello stesso stile in un’altra chiesa <Santa Maria Pammakaristos>, adibita a moschea anche se nel presente assume più la funzione di museo.

L’edificio ha subito parecchi restauri dall’epoca bizantina, ma i mosaici, che risalgono al 1320 circa sono conservati in buono stato. Originariamente comprendevano un busto di Cristo Pantokrator sulla cupola con i dodici Apostoli intorno al perimetro, mentre sulle pareti, nelle semivolte delle tre absidi e sotto gli archi erano ritratti i principali episodi della vita di Cristo, le figure della Vergine e di alcuni Santi.

Altri mosaici della stessa epoca, ma di genere meno raffinato si trovano nella chiesa di <Kilise Giami> dove adornano le volte che formano il soffitto dell’esonartece. La chiesa si deve probabilmente identificare con quella di San Teodoro di Tiro. Malgrado i mutamenti a cui fu sottoposta quando venne trasformata in moschea, dopo la conquista dei Turchi del 1453, ha tuttavia mantenuto in gran parte la sua struttura originaria ed i suoi pregi architettonici.

Un altro esemplare di architettura dell’epoca è la duplice chiesa del quartiere orientale di Costantinopoli, <Santa Maria Panachrantos>, nota sotto il nome di Fenari Isa Giamì. La parte orientale venne aggiunta alla struttura originaria nel XIV secolo.

Tra i migliori esemplari dell’ultima architettura paleologa va annoverata la chiesa dei <Santi Apostoli> di Salonicco a croce inscritta, a tre absidi, con un alto tamburo nel mezzo ed una cupola al di sopra di questo. L’edificio è circondato dalla parte dell’entrata da un nartece ed a destra come a sinistra da due lunghi vani. Fu costruita ed abbellita con mosaici dal patriarca Nifonte I (1303-1305). Nella cupola centrale sullo sfondo della pittura del Pantokrator vengono riportati i seguenti versi del salmo 101, 20-22: <dal cielo il Signore ha guardato sulla terra per ascoltare i gemiti dei prigionieri, per liberare i figli della morte, perché si annunzi in Sion il nome del Signore e la sua lode in Gerusalemme>.

Questa iscrizione ci mette in presenza di una concezione nuova del Pantokrator. La sua rappresentazione non può essere paragonata a quella di Dafni dominatore e Signore dell’universo, consustanziale  al Padre, il quale con l’incarnazione divenendo visibile agli occhi degli uomini dice di se stesso: <Filippo, chi vede me vede anche il Padre mio> (Giov. 14, 9).

La pittura del Pantokrator della chiesa in esame lo raffigura, invece, come Verbo incarnato pieno di misericordia. Svanisce così per lo meno in parte la maiestosa grandezza per far posto ad un sentimento umano:  si tratta di una glorificazione del Cristo-Dio misericordioso. Tra le finestre del tamburo sottostante la cupola si vedono i quattro grandi profeti e sei dei cosiddetti profeti minori. Le loro immagini vengono ben messe in risalto da uno sfondo d’oro solenne, segno della loro celeste dimora. Vengono caratterizzati dai testi che portano con se, ma il loro vero scopo è di voler esaltare la grandezza divina.

Oltre al gruppo dei mosaici del tamburo e della cupola si vedono nella chiesa degli Apostoli, ancora due gruppi di mosaici. Si tratta delle rappresentazioni delle grandi feste teofaniche dell’anno ecclesiastico e di molte figure di santi.

I mosaici delle feste si trovano sui pilastri che reggono la cupola centrale e sulle volte delle navate, mentre le figure dei santi si vedono principalmente nei quattro vani rimasti tra queste navate e le mura del rettangolo che costituisce l’edificio della chiesa. La navata che forma il vima e finisce nell’abside non è stata mai finita così che lì manca ogni indizio sulla probabile decorazione. Tutti questi mosaici non sono concepiti alla maniera di uno che racconta fatti storici. La loro estensione nello spazio ed il loro disegno pittorico è quasi epico: grande nelle dimensioni e grandioso nella concezione e nella esecuzione artistica. Questo vale soprattutto per le scene teofaniche delle grandi feste. Tra di loro spicca per il buono stato di conservazione la rappresentazione della Trasfigurazione e quella dell’entrata del Signore in Gerusalemme. Sopra la porta d’entrata della chiesa non appare, come abbiamo visto in alcune chiese del tempo dei Comneni il giudizio universale, ma l’ultima venuta di Cristo in terra per portare l’anima santa della Madonna in paradiso.

Tra i santi conservati  non si vede nessuna figura di apostolo, anche se da questi la chiesa prende  il nome; sono tutti di tempi assai remoti e venerati per lo più anche nella chiesa di Roma.

Gli affreschi della chiesa dei Santi Apostoli  eseguiti una quindicina di anni dopo i mosaici denotano sia nella loro decorazione come nei temi che vengono proposti una diversa mentalità ideologica. L’arte produce scene storiografe e narrative e non più teofaniche. Questo orientamento è ben visibile in quanto la navata di sinistra assai scura finisce in una cappella quadrata, nella quale  è dipinta in alto la vita di San Giovanni Battista. Vediamo prima l’annunzio della sua nascita, fatto da un angelo a suo padre Zaccaria, l’incredulità di questo comporta la sua punizione; segue la sua nascita e la scena dove l’angelo lo conduce nel deserto. Sulla terza parte si vede il banchetto di Erode, la morte del Santo e la figlia Erodiade che danza agitando liberamente le braccia tenendo sulla sua testa il piatto con la testa mozza del Santo. Sulla quarta parete, infine, si vede il seppellimento di Giovanni fatto dai suoi discepoli. Come si vede tutte queste scene sono prese dalla sacra scrittura e non dalle leggende apocrife.

Per quanto riguarda lo stile, l’arte pittorica perde molto del suo carattere trascendentale per lasciare il posto ad una concezione umanistica che va alla ricerca del realismo e della viva espressione. Lo sforzo che si era compiuto nel momento in cui si elaborava lo stile bizantino per smaterializzare la forma e costituire delle tipologie di volti nel contempo nobili ed ascetici in vista di una spiritualizzazione dei personaggi sacri, si compie ora a ritroso. Gli artisti ritornano al volume, la sagoma dei corpi si amplia e diviene più pesante. I tratti del volto si ispessiscono. Una nuova attenzione è prestata all’anatomia, sottolineata dalle pieghe del panneggio, le ombre e le luci. Il modellato si è sostituito alla linea di contorno. L’espressione del sentimento progredisce e si manifesta in un numero più importante di soggetti, che non hanno apparenti ragioni di provarne. I movimenti divengono più disinvolti, le curve e le rotondità dominano le composizioni, infine, i drappeggi decorativi e gli elementi del paesaggio prendono più posto di quanto non lo avessero prima.

In una visione di sintesi nella prima fase della riconquista di Costantinopoli la pittura monumentale si sviluppa in direzione della grandezza epica e nella libertà plastica delle figure radicate nella tradizione ellenistica. Inoltre la dottrina degli iconoduli che mirava alla più alta spiritualizzazione dell’immagine nel considerarla come investita di energie divine, ha lentamente condotto ad una progressiva umanizzazione delle figure a causa dell’interesse che questi hanno posto sull’incarnazione.

Se i dipinti conservati a Salonicco rappresentano l’opera di una scuola macedone ben distinta, lo stile di Costantinopoli era comunque sempre presente in altre località, specialmente nelle numerose chiese di <Mistrà>. In questo centro non si trova nessuna opera eseguita in mosaico per il relativo benessere dei costruttori e degli ideatori delle chiese. I mezzi materiali a loro disposizione era di molto inferiori a quelli degli imperatori e dei cortigiani di Bisanzio. Tuttavia questa relativa povertà al materiale non ha impoverito affatto il genio artistico.

Mistrà fu fondata verso il 1246 da un franco, Guglielmo de Villehardouin, fratello del famoso Goffredo, ma fu ceduta a Michele Paleologo nel 1259. La più antica delle sue chiese è quella di <San Demetrio> che più tardi divenne la cattedrale. Eretta nel 1312, fu restaurata nel XIV secolo da un certo vescovo Matteo, il cui monogramma appare sopra un’icona.

Della decorazione si sono conservati alcuni frammenti del ciclo della vita di Cristo, nonché di scene che illustrano il suo ministero ed i suoi miracoli, ed uno spazio considerevole è stato accordato ai cicli agiografici, come la vita di San Nestore e di San Demetrio come pure ai miracoli dei grandi guaritori Cosma e Damiano. La decorazione del vima è del XIV secolo ad eccezione dell’immagine della Vergine con il Bambino raffigurata nell’abside. Un complesso assai bello è conservato al di sopra della conca absidale del <diakonikon>: il Cristo-giudice  in gloria viene adorato da coorti angeliche che formano un corteo, mentre l’Etimasia, attorno alla quale stanno sei angeli, decora la volta. Il nartece presenta il ciclo dei concili ecumenici ed un grande Giudizio universale, dove si possono osservare due stili, uno arcaico, l’altro più moderno. Della chiesa dedicata a San Teodoro di Mistrà (1290-1295), non restano che alcune scene e dei frammenti.

Gli affreschi meglio conservati e che risalgono alla prima metà del sec. XIV sono quelli della chiesa <Peribleptos>, dedicata alla Vergine. Il suo titolo può essere inteso in senso attivo e passivo, come <quella che vede dappertutto> e come quella che <è vista da tutte le parti>.

La prima cosa che attira l’occhio di chi entra per la piccola porta aperta nel muro di sinistra della chiesa è ovviamente il vima con l’abside e, al di sopra dell’incrocio delle due braccia della croce scritta nel rettangolo della chiesa, la cupola, l’unica conservata tra tutte le chiese di Mistrà dalle origini fino ai nostri giorni.

Si vedono tracce di una iconostasi che separa il vima dallo spazio riservato ai fedeli. Nel centro del vima si trova un altare. Nel tondo dell’abside si vedono raffigurati i Padri della chiesa orintale: San Gregorio Nazianzeno, San Basilio, San Giovanni Crisostomo, San Atanasio. In alto nel mezzo dell’arco spicca il Cristo seduto sull’arcobaleno, dentro una mandorla, tenuta da quattro angeli volanti. Il punto di partenza per capire l’ideologia di tutta questa pittura deve essere preso dall’altare della chiesa dinanzi all’abside. Su questa si celebra il sacrificio eucaristico visibile per i partecipanti, al di sopra dell’altare appare l’aspetto invisibile di questo sacrificio, cioè il culto con il quale gli angeli venerano il Cristo immolato. Sopra di loro si vede il Cristo stesso nella sua natura umana, con sua Madre, mentre a destra ed a sinistra è mostrato a noi nella comunione che distribuisce agli Apostoli in qualità di Sommo sacerdote. Va anche rilevato come già è stato sottolineato che l’immagine del Pantokrator che occupa la cupola centrale, non rappresenta più Cristo nel suo contenuto ideologico del Dio onnipotente, come a Dafni, ma nelle sembianze di Uomo-Dio. Anche i lineamenti del suo viso sono più umani, più dolci, in confronto con l’austerità del tempo dei Comneni.

Nei grandi affreschi delle volte e delle pareti oltre le figure intere di molti santi, si vedono alcune scene della vita di Gesù: la Nascita, il Battesimo, la Trasfigurazione, i Miracoli, l’Anastasis, il Tommaso incredulo, la Pentecoste e la morte della Madonna. La crocifissione e le scene della passione sono piene di sentimento umano: come ci mostrano il pentimento di Pietro, la via Crucis, ed altre scene patetiche. Si osservano anche molte scene della vita di Maria Bambina.

In un affresco dell’abside del <Diaconicon> a destra del vima si scorge una figura di Gesù Bambino quasi <dormiente> ma con gli occhi aperti. Il nome di questa rappresentazione quasi mistica comporta l’illustrazione libera di due versetti del capitolo XLIX della Genesi, che Giacobbe profetizza prima della sua morte: <Poi per riposarti t’accovacciasti come un leone o come una leonessa; chi oserà svegliarlo? Lo scettro non verrà tolto a Giuda come pure  l’impero alla sua discendenza finchè venga chi deve essere mandato ed egli sarà l’Atteso delle nazioni>. Il leone secondo le credenze del popolo di allora, dormiva con gli occhi aperti. Sicuramente il pittore riproduce questa profezia di Giacobbe, indirizzata al figlio primogenito Giuda, figura di Cristo, ed in qualche maniera del popolo cristiano. Così essa diventa nei tempi difficili dell’impero dei  Paleologi una consolazione per tutti, nascosta ma forte, di carattere quasi apocalittico. Il fatto che proprio in questa piccola navata cominci il racconto della passione di Cristo sottolinea quanto sia fondata la speranza che doveva avere lo spettatore di allora nella vittoria finale degli aderenti a Cristo.

Nella navata della  <prothesis>, a sinistra del vima, si trova un altro affresco, unico nella pittura bizantina. La sua fattura è bellissima: il ritmo dei movimenti è perfetto, i colori sono ancora dopo molti secoli di un’armonia sorprendente. Rappresenta nel fondo Cristo vestito da sacerdote stando dietro ad una specie di tavola, che reca ad alcuni angeli, vestiti da diaconi,  i sacri doni: alcuni durante la processione tengono sopra la testa il pane sul disco coperto da un velo, mentre altri portano il calice ugualmente coperto dinanzi al petto. Il Cristo come il vescovo durante la liturgia li attende davanti alla porta centrale dell’iconostasi. Il primo della serie porta con se anche il turibolo.  In questo affresco è mostrato visibilmente ciò che dicono alla mente del fedele le parole del cosiddetto <Cherubikon>, canto che accompagna il <grande ingresso> durante la liturgia.

Anche la chiesa nota come <Afentikò> risale allo stesso periodo. La chiesa fa parte di un complesso monastico, detto <Brontochion>, dedicato alla Madonna sotto il titolo di Hodegitria. Faceva parte di questo monastero anche la chiesa dei SS. Teodori, costruita secondo la pianta di Dafni presso Atene, benché meno alta, nella quale però non rimangono se non pochi resti delle pitture. Il fondatore della chiesa e del monastero insieme all’abate Pacomio fu un despota di Mistrà, fratello dell’imperatore bizantino Teodoro I (1383-1407). Morì monaco anch’esso in questo suo monastero. La chiesa a croce inscritta in un rettangolo con un nartece è stata deturpata posteriormente da gallerie, che lasciano intatto il piano primitivo soltanto per le parti superiori, mentre il pian terreno è diventato di forma piuttosto basilicale con navate laterali assai scure e basse.

I dipinti della prima chiesa purtroppo in pessimo stato erano probabilmente i più belli della città, ricchi di particolari pittoreschi ed eseguiti con tecnica raffinata. Si fanno risalire al secondo quarto del XIV secolo in base ad una iscrizione posta sulle pareti di una cappella del lato sud, che riproduce l’autorizzazione reale sotto i nomi di Michele VIII (1258-82) e di Andronico II (1282-1328). Il soffitto di questa cappella è adorno di angeli che sorreggono una <gloria>; nella galleria vi è una sequenza di scene, rese con particolare vivezza, tratte dalla vita di Cristo, tra le quali, di particolare interesse per i toni cromatici, quella della guarigione del Paralitico. L’altra chiesa, dedicata a San Teodoro fu fondata verso il 1296 da un certo Pacomio che si era distinto combattendo contro i Franchi. I dipinti sulle pareti riproducono storie della vita della Vergine, quelli sulle volte episodi della vita di Cristo; mentre sul soffitto vi sono alcuni busti di profeti, tra cui notevole quello di Zaccaria. In una delle cappelle orientali si vede il ritratto di Manuele Paleologo inginocchiato ai piedi della Madonna.

L’unica chiesa che nel presente si conserva in buone condizioni è quella della <Pantanassa>. Fu eretta verso il 1350 dal tiranno Manuele Cantacuzeno e restaurata da Giovanni Frangopoulos nell’anno 1428, ed i dipinti risalgono a quest’ultima data. I migliori si trovano sulle volte e nelle gallerie; quelle delle navate laterali e del nartece sono più recenti e meno interessanti. All’estremità orientale della grande volta centrale è raffigurata l’Ascensione, con Cristo al centro ed un gruppo di spettatori su ciascun lato. Nella parte sinistra della volta sono raffigurate altre storie della vita di Cristo: l’Annunciazione, la Natività, la Presentazione al Tempio, l’Entrata in Gerusalemme e la Resurrezione di Lazzaro; tutte rivelano una grande maestria nella composizione ed i colori sono sempre deliziosi. Nell’Annunciazione si ammira una ricchezza di motivi architettonici sullo sfondo e di dettagli in primo piano, compresa una pernice che si abbevera ad una fontanella, è soprattutto bellissima la figura alata dell’angelo, delicatamente sospesa nello spazio. Forse l’episodio più notevole è quella della resurrezione di Lazzaro dove le vesti verdi e lo strano rosso-rosato del sepolcro producono un effetto sorprendente.

Questo edificio  attualmente serve da chiesa monasteriale per un gruppo di suore, le uniche che abitano questa città distrutta ed abbandonata. Non si può negare che questa chiesa con il suo nartece laterale che domina da lontano tutta la collina faccia dal di fuori una impressione più importante che non nel suo interno. Sebbene l’uso quotidiano liturgico delle monache le abbia conservato un carattere religioso, la pietà degli abitanti ha fatto sparire non poco della sua grandiosa monumentalità. Qui si attenua il valore culturale dell’ornamento pittorico in favore dell’elemento liturgico. Questo fatto  giova per meglio valutare il posto che l’elemento pittorico delle chiese bizantine ha avuto nella mente dei Bizantini. Era un aiuto per lodare  Iddio, senza avere uno scopo ristretto in se.

La conquista di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204 avrebbe potuto mutarsi in una vera catastrofe anche per quanto riguarda l’arte, al contrario i Greci presero coscienza della propria originalità e questo investì anche la pittura bizantina che comportò uno sviluppo entro i limiti fissati dall’ortodossia.

La dinastia dei Comneni, che riuscì a sopravvivere alla conquista turca fino al 1461, abbellì di chiese e di monasteri <Trebisonda>. La prima da annoverare è quella di Santa Sofia, decorata da artisti greci, alcuni dei quali di origine sicuramente costantinopolitana. Non pochi esperti in base al ritratto di Manuele I (1238-1263) ed in confronto con la pittura serba di quest’epoca, sono giunti alla conclusione che la decorazione della navata è del 1260, quella del nartece del 1270 e quella del portico del 1280.

Nella maggior parte delle pitture di Santa Sofia la rinascenza si manifesta in modo brillante. Si resta, infatti, stupefatti dal numero elevato di protagonisti che un episodio come la moltiplicazione dei pani e dei pesci può comprendere, dalla disposizione estremamente libera delle immagini nel campo figurato, dalla varietà dei movimenti e dei gesti, dal dinamismo, infine, che questa scena sprigiona. Nell’episodio della guarigione dell’indemoniato riprodotto nel nartece, l’artista ha raggiunto un alto potere espressivo. Il diavolo è raffigurato con un aspetto terribile e l’ansia della madre come l’ossessione della fanciulla sono rese in modo particolarmente intenso. Le nozze di Cana sono rappresentate secondo i canoni della pittura del XIV secolo. La scena è assai animata e mostra anfore ed oggetti di uso domestico in primo piano. Un giovane servitore versa dell’acqua nelle anfore, mentre un altro porta una brocca sulle spalle. La lotta di Giacobbe con l’angelo nel nartece è una pittura resa con macchie di colore giustapposte, in cui le forme minacciano di dissolversi nel gioco di ombre e di colori. Si tratta di un saggio che mostra l’avanzato livello di innovazione in corso.

Il grande maestro di questo complesso ha anche dipinto la cupola di cui è scomparsa la figura del Pantokrator. Rimane la corona di angeli in <proskynesis> da cui egli era circondato, i profeti e l’Emmanuele nel tamburo e gli evangelisti nei pennacchi. I volti di questi, dai tratti individualizzati e modellati con un’estrema cura, sono da annoverare tra i più bei ritratti di questa rinascenza bizantina. Gli angeli del bordo della calotta si presentano in tre file serrate e sovrapposte, in un sapiente disordine che fa sì che lo spettatore li creda in movimento. Essi sono disposti in modo da convergere verso oriente, dove si trova uno spazio vuoto, in quanto la pittura è scomparsa. In questo punto si doveva trovare probabilmente l’Etimasia. Le tuniche ed i mantelli dei messaggeri celesti formano numerose pieghe, alcune della quali hanno persino rilievo, mentre altre sembrano parzialmente coperte da veli trasparenti. E’ arte di grande livello ed i fedeli che levano in alto gli occhi nella chiesa, dovevano credere di trovarsi in presenza di una visione celeste.

Nonostante la perdita di una parte della decorazione, il programma di Santa Sofia testimonia le tendenze narrative che caratterizzano la cosiddetta rinascenza paleologa ed un nuovo tipo di composizioni. La volontà di raccontare in dettaglio si manifesta nella maggior parte dei soggetti rappresentati, ed in modo particolare nella moltiplicazione dei cicli e degli episodi che compongono ormai i programmi. Al ciclo evangelico sono aggiunte scene dell’infanzia di Gesù come quella tra i dottori, ed il racconto della passione, assai sviluppato, è completato da quello della resurrezione che mostra le apparizioni di Cristo dopo la sua morte. La chiesa ha ugualmente conservato un ciclo dell’infanzia della Madre di Dio ed un altro, veterotestamentario che include l’Albero di Jesse raffigurato nel portico.

Il dipinto è di alta qualità: le singole figure si presentano vive ed espressive con un indagine psicologica mai raggiunta dall’arte bizantina. Lo stile riflette chiaramente i mutamenti che si andavano verificando. I personaggi sacri appaiono più personalizzati, più individuali, le scene più animate con un nuovo interesse per il particolare.

La seconda chiesa della quale dobbiamo occuparci è quella del monastero <Theoskepastos>. Nel nartece di questa chiesa l’imperatore Alessio fece seppellire il figlio illegittimo Andronico morto in un infortunio. Verso l’anno 1850 si vedeva ancora, al di sopra della sua tomba, la figura di lui e quella di tre principesse della famiglia imperiale.

Gli affreschi di questo monastero si trovano soprattutto nella navata della chiesa. Nel catino dell’abside sta la Madonna in piedi con il Figlio in uno scudo dinanzi al petto. Più in giù nel tondo si vede la comunione degli Apostoli. Al di sotto di questa scena appaiono i vescovi che non si dirigono verso il centro dell’abside, hanno, invece lo sguardo rivolto verso la navata. Nella mano tengono le strisce, non aperte come d’abitudine ma chiuse.

Dietro l’altare della chiesa si trova dipinto un altro, sul quale non si vedono il calice e la patena, ma la figura intera del Cristo morto disteso, rigido come sulla pietra tombale. Vi è non soltanto una rappresentazione ma anche una concezione molto diversa da quella abituale. Nelle altre composizioni si vedeva il Bambino Gesù sdraiato, in atto di essere immolato sulla patena; qui appare il Cristo morto dopo la sua immolazione. Corrisponde ad una spiegazione della liturgia: Teodoro di Mopsuestia nella sua XV omelia scrive: <crediamo che Cristo sia messo sull’altare in una specie di tomba già dopo aver sofferto la sua passione. Le tele che certi diaconi mettono sugli altari rappresentano le tele della sua sepoltura>. Egli continua dicendo che gli astanti fanno quasi guardia d’onore al nobile morto, come si fa per i grandi di questo mondo. Così i santi dipinti nell’abside in piedi, accanto all’altare-tomba raffigurano la guardia d’onore del Cristo giacente quasi sul suo letto.

Nell’alto della volta del presbiterio si trova un’altra rappresentazione poco comune. Non si vede, infatti, come di consueto il Cristo dell’ascensione; in questa raffigurazione per la seconda volta viene riprodotta l’immagine della  Vergine-Panaghia senza avere con se il Figlio: è collocata in un medaglione portato da angeli.

Sull’arco che separa il presbiterio dall’unica navata della chiesa sono dipinti medaglioni con i profeti. La prima cosa che si nota sul tondo della volta della navata, quasi in sostituzione del Pantokrator vi è l’Etimasia: il trono della maestà divina è circondato a destra e a sinistra da due file di apostoli seduti. Verso l’entrata in un piccolo quadrato della chiesa è raffigurata la Vergine attorniata da quattro evangelisti.

Dall’alto della volta della navata verso le pareti ed il pavimento si susseguono a destra e a sinistra scene della vita e della passione di Gesù secondo il testo dei  Vangeli. Mancano, invece, quelle della vita leggendaria di Maria. La rappresentazione continua con una serie di medaglioni di santi, al di sotto si trovano due file di santi in piedi.

Gli affreschi di questa chiesa si presentano molto deturpati, più afferrabili con l’intelletto che con l’occhio. Ma anche nella loro rovina danno testimonianza della pietà religiosa e del valore artistico di questo ristretto territorio di terra bizantina.

Il terzo edificio sacro del quale dobbiamo occuparci per quanto riguarda l’arte bizantina in Trebisonda si trova nella torre della chiesa di Santa Sofia. Si tratta di una cappella volta verso oriente, situata in alto ed accessibile per mezzo di una scala esterna. Le figure che l’adornano sono state eseguite, secondo una iscrizione conservata negli anni 1443-1444.

La chiesetta è quasi quadrata con una piccola abside che sporge dal muro orientale. La volta è divisa in quattro parti da due linee che si incrociano.

Del catino dell’abside si vede una <Deesis>, dove il Cristo è contraddistinto oltre che dalle iniziali del suo nome, anche dalla denominazione di <Salvatore>. A destra ed a sinistra è raffigurata come di rito la Vergine e il santo Precursore. Tra queste due immagini si trova a destra un Serafino, ed a sinistra un angelo con un ripidio in mano.

Sul tondo dell’abside vi è l’abituale comunione degli apostoli. Al di sotto di loro i Gerarchi si avvicinano verso il centro assai deteriorato.

Nel quadrato della chiesa sono riprodotte le dodici Feste dell’anno liturgico ed in basso attorno a tutte e quattro le mura una fila di santi, tra  questi San Cosma a destra, e San Damiano a sinistra dell’abside.

Del periodo della rinascita paleologa va anche inserita la <Parigoritissa> di Arta (1290) del <Despotato dell’Epiro> fondato da Niceforo Comneno Dukas e da sua moglie Anna nipote dell’imperatore Michele VIII  Paleologo. I mosaici di questa chiesa furono eseguiti da artisti costantinopolitani di cui una gran parte è andata distrutta. Tra i pannelli conservati la maggior parte condivide lo stile nuovo ed attesta un accurato grado di esecuzione. Si ritrovano personaggi robusti e solidi, si cerca il realismo e l’espressione viva tanto nel viso quanto negli atteggiamenti. L’arte presenta una visione umanistica pienamente sviluppata.

Nella cupola il Pantokrator è circondato da Serafini e Cherubini, nel tamburo sono riprodotti dodici profeti, dieci dei quali si sono conservati. Alcuni frammenti degli evangelisti rimangono sui pennacchi. A differenza delle altre immagini quella del Pantokrator appartiene allo stile del sec. XII, severo e lineare con forme non voluminose e figure calme dal largo drappeggio.

L’influsso della liturgia nelle decorazioni di questa chiesa è molto evidente. Per la prima volta vengono illustrate le ventiquattro strofe dell’inno <AKATHISTOS>, composto nel sec. VI da Romano il Melode. Il poeta nelle prime dodici <Salutazioni> celebra l’incarnazione del Verbo; nelle altre dodici glorifica la Vergine. E’ in Lei che il mistero dell’unione tra Dio e la creatura umana diviene  totale e perfetto.

Nonostante il crollo di Costantinopoli  da parte dei crociati nel 1204,  l’arte sotto la dinastia dei Paleologi si risvegliò per un’ultima rinascenza. Questa ad opera degli umanisti viene a perdere il suo carattere astratto per farsi viva e pittoresca, drammatica e graziosa. L’iconografia si arricchisce e si rinnova, facendosi patetica ed appassionata.

 Nonostante questa tendenza il concetto del sacro non è stato mai perso di vista. Questa concezione con la vittoria del movimento degli Esicasti si

cristallizzò sempre più nelle espressioni idealistiche per esprimere la profonda religiosità di una iconografia dal prevalente carattere trascendentale.

CAPITOLO V

L’ARTE BIZANTINA NEL SUO PERCORSO EVOLUTIVO.

  1. LE ORIGINI E L’ARRIVO DEL NUOVO STILE.

L’imperatore Costantino,fondatore della nuova capitale intitolata a suo nome, nell’intento di amalgamare quanto più possibile una popolazione costituita da una molteplicità di razze, oltre alla cultura ed alla religione, fece ampio ricorso all’arte. Sarebbe stato impopolare ed in contrasto con l’ontologia psicologica privare le comunità presenti in Bisanzio di quella cornice di stili che provenivano da diverse etnie. Inoltre Costantino da buon politico intuì che il cristianesimo aveva con se tutte le speranze dell’avvenire e volle che la <Nuova Roma> fosse orientata fin dal suo inizio verso questa nuova religione. Per conseguire tale scopo diverse furono le chiese che egli fece costruire: vicino al palazzo imperiale venne edificato il tempio dedicato alla <Sapienza Divina> con la convinzione che tale denominazione potesse essere condivisa da Niceni ed Ariani; come pure nei quartieri alti della città fece erigere la chiesa dei Santi Apostoli per essere riuscito a divenire <l’Isapostolo>. Facendo leva sull’orgoglio ancora vivo della romanicità Costantino si servì della forma basilicale di tipo paleocristiana senza rimanere fermo ai vecchi modelli greci o alle splendide imitazioni elaborate da Roma nell’età augustea.

Con la perdita di queste chiese non è possibile pervenire ad una diretta conoscenza della pittura sacra. Il confronto, pertanto, si colloca sotto il segno dell’arte profana della capitale. In questo periodo i pavimenti erano formati da mosaici, le pareti venivano decorate da scene o figure isolate, dai simboli del tempo come mesi e stagioni. D’altro canto l’arte cristiana dei primi secoli aveva già composto una iconografia narrativa dei cicli dell’antico e nuovo Testamento.

Delle chiese costruite dai successori di Costantino ugualmente resta molto poco. Per quanto in stato di abbandono si è salvata la chiesa di S. Giovanni Studita eretta nel 463 secondo la classica pianta basilicale romano-ellenistica. Il pavimento era decorato con figure di animali e scene mitologiche. Da ricerche condotte dall’istituto archeologico russo nel 1913 si può dedurre che le pareti erano ornate di mosaici. Gli edifici, inoltre,  hanno ceduto al tempo ed alla rapacità degli uomini, oppure sono stati trasformati in moschee con alterazioni tali da rendere le decorazioni irriconoscibili.

Nonostante queste perdite, Bisanzio sorgeva rapidamente nel segno della grandiosità e bellezza dell’antica Roma, che sin dall’inizio seppe arricchirsi delle tecniche e degli stili in uso nell’impero elaborate nelle grandi città ellenistiche del mediterraneo orientale: Alessandria, Antiochia, Efeso, come pure dei territori più lontani come quello mesopotamico.

Il compito di Costantinopoli come capitale della monarchia e centro dell’ortodossia e dell’ellenismo fu quello di prendere la direzione delle attività artistiche e di formare lentamente partendo dall’eredità ricevuta, una nuova arte ufficiale, arte di stato per diffonderla nell’impero. Nell’ambito di tale elaborazione l’influenza dell’alto clero di Costantinopoli, della corte e degli alti funzionari selezionava il contributo delle varie tendenze e correnti. La preferenza per opere dello stile elegante di tradizione classica fece eliminare quella produzione artistica di tradizione siriaca dal realismo troppo vivo, e quella di tradizione romana troppo empirica, come pure quelle indiana dallo stile spiccatamente sensuale. Questa impronta non si riteneva conforme alla raffinatezza degli ambienti aristocratici di una capitale che sorgeva nella sfera di un mondo ellenizzato e ad orientamento completamente cristiano.

Nella storia della civiltà bizantina il regno di Giustiniano segna l’epoca in cui si compiva a Costantinopoli questa lenta evoluzione preparata da due secoli. Dal momento che questi ebbe il gusto degli edifici, come pure la buona fortuna di trovare artisti eminenti per eseguire i suoi piani e la possibilità di mettere a loro disposizione risorse inesauribili, ne risultò che i monumenti di questo secolo, miracoli di scienza, di audacia e di magnificenza segnarono in opere definitive l’apogeo dell’arte bizantina.

Giustiniano accogliendo i diversi aspetti artistici della cultura cosmopolita dell’immenso impero unificato da Roma e che rimasero a fondamento della visione bizantina attraverso la sua storia, seppe utilizzare questo raffinato patrimonio nelle diverse forme architettoniche che troviamo al suo tempo. Come pure nel campo degli edifici egli riuscì ad applicare la dottrina dello Pseudo-Dionigi-l’Areopagita nell’esecuzione di una struttura capace di simbolizzare la chiesa come immagine dell’universo.

Nacquero così chiese a pianta poligonale come quella dei Santi Sergio e Bacco a Costantinopoli e di S. Vitale a Ravenna, costruzioni cruciformi coronate da cinque cupole come la chiesa dei Santi Apostoli, come pure il capolavoro dell’epoca la chiesa di Santa Sofia, costruita negli anni 532-537 da Artemio di Tralle e Isidoro di Mileto, che rimase per l’originalità del piano, la leggerezza della struttura, per la sapienza della disposizione, l’abilità delle combinazioni di equilibrio, l’armoniosa bellezza delle proporzioni,  il capolavoro incontestato.All’interno di questi edifici l’ingegnosa policromia dei marmi, la fine cesellatura delle sculture, il rivestimento musivo a sfondo azzurro o aureo costituiscono una magnificenza incomparabile, della quale pur in presenza dello stato di degrado si può pervenire ad una conoscenza di questa stupenda decorazione. Non si può disconoscere che siano stati nel vero i posteri che hanno riscontrato in Giustiniano come Dante nel paradiso (VI, 10-12), una figura di eminente statista ed umanista per la sua altissima posizione nella storia della civiltà.

L’arte destinata a rispondere alle esigenze spirituali e didattiche della chiesa ed al concetto della sua forma architettonica quale configurazione del cosmo non poteva essere una semplice copia delle opere precedenti ispirate all’iconografia pagana. Per corrispondere al contenuto dogmatico ed ai concetti teorici che nutrivano sempre più la nuova religione, lo stile pittorico bizantino, imbevuto della filosofia idealistica di Platone e dei neoplatonici sfoggiava della composizioni che dovevano essere la testimonianza dell’esistenza di un mondo ultraterreno inattingibile dal pensiero razionale. La tendenza alla rappresentazione trascendentale veniva espresso attraverso la figura umana costituita in maniera quasi inorganica nella progressiva astrazione dello spazio e nella subordinazione delle vaste scene murali alle esigenze di un determinato ritmo. I mosaicisti di Giustiniano eseguirono superbe composizioni di grande valore artistico, in cui le figure, per quanto talvolta erano modellate sul genere di quelle pagane recepivano interpretazioni e concetti completamente nuovi. Pertanto il Cristo dell’abside di S. Vitale a Ravenna assomiglia ad Apollo, mentre gli angeli della stessa scena appaiono solenni e severi. Possiamo, inoltre, già avere una idea dell’inclinazione per la composizione ritmica che doveva distinguere l’arte bizantina, e che appare chiaramente nelle vesti delle Vergini che camminano in processione nella navata di Sant’ Apollinare Nuovo a Ravenna. Si tratta di un’arte ieratica, ed astratta, altamente spirituale e suggestiva, che dà poca importanza al realismo ed ampio campo all’immaginazione.

Va, tuttavia, rilevato che durante il generoso patronato di Giustiniano i pericoli dell’idolatria, come pure la convinzione dei risultati dannosi delle raffigurazioni che per secoli avevano dominato l’arte greca e pagana, esercitavano una preferenza per le rappresentazioni aniconiche.

Per questo motivo l’intreccio tra architettura e decorazione ebbe i suoi concreti effetti. Infatti sullo sfondo d’oro della cupola centrale veniva collocata la croce quale visione celeste elevata al di sopra di tutte le realtà create. Per ogni cristiano bizantino segnava la zona dell’al di là e diveniva simbolo della seconda venuta del Cristo glorioso.

Va, infine, sottolineato che sotto l’influsso combinato dell’Oriente e della tradizione antica, il secolo VI caratterizzato dall’attività di Giustiniano per il carattere di lusso impressionante e di solenne maestà è stato denominato <il primo periodo aureo> dell’arte bizantina.

  • LA DOTTRINA ICONOCLASTA E L’ESITO DELLE PERSECUZIONI.

Il culto delle immagini che si era profondamente radicato nella chiesa greca, non aveva affatto estinti di avversari che vedevano in tale devozione una illecita concessione al paganesimo. Le tendenze contrarie alla rappresentazione della divinità e dei santi si trasformarono in un editto di severa proibizione promulgato nel 726 da Leone III (712-41).

Il divieto imperiale ebbe gravi conseguenze per la pittura religiosa. Ovunque le immagini sacre vennero allontanate dalla chiesa, le pitture murali furono distrutte, i mosaici coperti di intonaco e sostituiti da scene campestri e motivi ornamentali. L’unica raffigurazione permessa è stata quella della croce racchiusa nella conca absidale. Una decorazione del genere esiste tuttora nella chiesa dei Sant’Irene a Costantinopoli; un’altra simile in Santa Sofia a Salonicco sostituita nell’886 dall’attuale mosaico che ritrae la Vergine; un’altra era visibile nell’abside dell’Assunzione a Nicea che andò distrutta con l’edificio nel 1922. Il conflitto tra iconoclasti ed iconoduli trovò la sua valida soluzione nel mistero dell’incarnazione; il Dio invisibile si è fatto visibile rivelandosi nella forma umana nel Verbo incarnato. L’icona, pertanto, diviene il riflesso della natura divina ed umana unite senza mescolanza nella persona del Verbo. Da questa dottrina come logica conseguenza risulta che l’immagine è un simulacro che riproduce i caratteri del soggetto, ma con qualche differenza, poiché l’icona non assomiglia in tutto all’Archetipo. Essa contiene nello stesso tempo elementi di somiglianza e di diversità. In rapporto a tale considerazione le rappresentazioni devono essere trasformate nella forma di un mondo nel medesimo tempo simile e diverso dal nostro. La convergenza di queste due esperienze nella fruizione di una medesima opera che è sacra ed artistica trova la sua ufficiale approvazione dalle norme del VII concilio ecumenico del 787.La capacità della rappresentazione sensibile di indicare l’invisibile realtà divina spiega come nell’architettura religiosa la finalità specifica dell’edificio sacro si riveli immediatamente nella struttura dello spazio, nella spiritualizzazione delle forme e dei soggetti e nei riti della liturgia la cui solennità deve servire per elevare l’uomo verso la sfera trascendentale.

  •  L’ARTE BIZANTINA DURANTE LA DINASTIA       MACEDONE E COMNENA (869-1204).

L’epoca degli imperatori macedoni è caratterizzata da una rinascita in tutti i campi del pensiero compreso quello artistico che segna <una nuova età d’oro >. L’eccezionale sviluppo dell’arte bizantina di questo periodo va riscontrato nella ritrovata antichità ed in modo particolare nel movimento iconoclasta.

Il cristianesimo orientale, infatti, dopo l’anno 843 quando gli iconoduli ottennero la vittoria con il ripristino del culto della immagini, assume il suo aspetto più caratteristico e l’essenza della visione ortodossa,basata sulla fede profonda della realtà del mondo invisibile giunse a piena maturazione. Nella esecuzione e realizzazione di questo sviluppo dottrinale, la concezione della chiesa considerata un microcosmo veniva ad accogliere una decorazione pianificata. Nella sommità della cupola, simbolo della Gerusalemme celeste,veniva posta la figura di Cristo Pantokrator con lo sguardo rivolto verso la parte bassa dell’edificio. Nel catino dell’abside trovava la sua esatta collocazione l’immagine della Vergine; le due figure divine erano accompagnate da scene della loro vita oppure da  profeti o da apostoli. I santi vennero posti ad un livello più basso e fingevano da anello di congiunzione tra la sfera celeste ed il mondo terreno. Allo stesso modo l’iconostasi servì a segnare la linea di confine tra il santuario ed il corpo della chiesa. Questo schema fu sviluppato per la prima volta da Basilio I in una chiesa da lui fondata e denominata la <Nea>.

I successori di Basilio I furono anch’essi grandi costruttori, e gli architetti di cui si servirono, seppero con fantasia ingegnosa e ricercatrice rinnovare in una serie di chiese affascinanti il tipo creato a Santa Sofia. La chiesa del convento di S. Luca-Focide, e quella di Dafni-Attica, sono evidenti capolavori che riflettono l’arte bizantina ad imitazione della <Nea>. Il santuario di Santa Sofia a Kiev e quello di Ocrida in Macedonia che riporta il medesimo nome, attestano l’influenza che quest’arte esercitava su tutto l’oriente cristiano. L’attenzione va posta anche nei mosaici che decorano le chiese di riferimento. Questi manifestano un gusto di lusso abbagliante e di prodigioso splendore.

La loro presentazione, tuttavia, da un punto di vista ideologico astrae da una concezione uniforme. Se il Pantokrator del tempo immediatamente posteriori alla iconoclastia nell’esonartece della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli ritrae Cristo come luce del mondo (Giov. VIII, 12), quello della cupola di Dafni comporta un aspetto di giudice inflessibile, di un sovrano che afferma il suo potere sull’universo.

L’iconografia bizantina, inoltre, pur rimanendo fedele al suo carattere specifico di natura teologica ha continuato a sviluppare nell’arte figurativa la visione di quelle concezioni che animavano la sua società.

Al vertice della gerarchia si trovava l’imperatore. Questi, ritenendosi il rappresentante di Dio sulla terra, intese sottolineare il carattere sacro del sovrano e fare della regalità terrestre una immagine di quella divina. Nel fastoso cerimoniale di corte l’imperatore appariva come un essere sovraumano. Tutto ciò che riguardava la sua persona era ritenuto sacro e l’arte cingeva la sua testa del nimbo come faceva per le persone divine e per i santi. Questa ideologia religioso-politico appare nella pittura sacra. Il secondo mosaico dedicatorio della chiesa di Santa Sofia in Costantinopoli, che si trova nel nartece di destra della porta d’entrata dell’epoca di Basilio II (976-1025) costituisce una inconfutabile prova.

Va, inoltre, rilevato che l’aristocrazia aveva un ruolo determinante nell’impero; era perfino capace di deporre gli imperatori. Questa nei mosaici dedicatori dei vestiboli di Santa Sofia ha lasciato una sontuosa rappresentazione delle feste di corte. L’iconografia imperiale in questi pannelli, come anche in altri del genere, per la forma stilistica e per il trasparente contenuto di religiosità va annoverata tra i prodotti più nobili del genio artistico bizantino.

Vicino alla classe illustre dell’oligarchia si trovava anche l’alto clero. Grazie a questi prelati la chiesa di Costantinopoli possedeva un’organizzazione molto efficace che si stendeva fino alle province più lontane. La ricchezza e la profondità del loro pensiero li hanno resi celebri oltre il confine dell’impero; molti sono venerati come dottori della chiesa universale. La loro grandezza si riflette negli affreschi delle absidi. Rivestiti delle vesti sacerdotali restano ancora oggi i testimoni dell’incarnazione del Verbo. I loro volti purificati dal digiuno e dalle veglie riflettono una vita regolata da un’ascesi rigorosa, da una concentrazione interiore che tende già su questa terra verso la luce increata di Dio.

Quanto allo stile del grande periodo medio della storia bizantina, l’arte che si costruisce a Bisanzio nel sec. IX e X è pervasa da una spiccata tendenza trascendentale: mira al superamento del mondo terreno.

La fedeltà della pittura bizantina all’antropologia greca, infatti, non era più in grado di esprimere l’idea dell’umanità nella sua pienezza come conseguenza della teologia dell’incarnazione. La figura umana continua ad avere il suo ruolo di primo piano, ma la sua immagine viene ad essere trasfigurata perdendo il suo aspetto naturalistico. Inoltre l’iconografia non tende tanto a mostrare l’avvenimento storico ma comprenderlo nell’ambito della salvezza; l’elemento topografico e scenografico è ridotto al minimo.

In concomitanza con lo stile lineare, a cominciare dalla fine del sec. XI e nel sec. XII nelle chiese più povere della città, ma soprattutto in quelle delle campagne la decorazione ha dato maggior importanza alla teologia narrativa. Nella raffigurazione di queste scene si adottò comunemente uno stile più vivace ed intimo. Venne così a svilupparsi un interesse verso l’umanesimo di cui le pitture murali di Nerezi datate al 1164 sono le più rappresentative.

L’estetica bizantina costruita sotto la dinastia macedone e comnena non può considerarsi uniforme. Accanto alla forma ieratica è presente lo stile che riflette maggior intimità e forza espressiva.

  • LA RESTAURAZIONE DEI PALEOLOGI (1261-1453).

Un evento di capitale importanza che sconvolse profondamente i Greci è stata la presa di Costantinopoli da parte dei Latini nel 1204. La conquista di Bisanzio da parte dei crociati ebbe come prima conseguenza lo smembramento dell’impero bizantino con la nascita di diversi stati greci: uno a Trebisonda in fondo al Mar Nero, un altro nell’Epiro, un terzo in Tessaglia, ed un quarto a Nicea, che si stabilì sempre più saldamente.

Nel 1261 Michele VIII Paleologo rientrò solennemente a Costantinopoli, facendosi incoronare imperatore. La Morea, con Mistrà capitale, fu una creazione dei Franchi ma in seguito fu ripresa dai Bizantini.

I Greci che si erano ritirati a Nicea, nel confronto con i Latini, presero coscienza della propria originalità e riuscirono in tal modo a capire meglio la propria identità culturale. Dopo essersi definiti per secoli <Romani>, cominciarono a chiamarsi <Elleni>. Inoltre per compensare le sconfitte militari, sopravvalutarono il proprio glorioso passato, e dal momento che non vi era alcun rischio di paganesimo, da parte degli studiosi nacque un appassionato interesse per il patrimonio antico, che fu accompagnato da una vera fioritura delle lettere e delle arti.

Con la restaurazione dell’impero sotto i Paleologi nel 1261 l’architettura è stata caratterizzata dalla presenza di piccole cupole e da strutture aggiunte al corpo della chiesa. L’esterno degli edifici sacri venne ben curato. Facciate policrome a marmi e mattoni alternati e disposti in figure geometriche diedero un notevole contributo al recupero della civiltà bizantina. Questo stile aggraziato e piacevole oltre che a Costantinopoli ed in Grecia ebbe una attenta accoglienza anche in Bulgaria ed in Serbia.

Va, inoltre, rilevato che durante l’occupazione latina di Costantinopoli che va dal 1204 al 1261, gli artisti che non trovavano più sufficiente commissioni a Nicea erano continuamente chiamati a lavorare altrove. La giovane dinastia serba era in pieno sviluppo ed i suoi rappresentanti ricchi e devoti consideravano come propria la cultura bizantina. Questi, pertanto, per decorare le chiese che fondavano, chiamarono i più noti pittori bizantini.

Lo stesso avvenne nei principati di Trebisonda e d’Epiro i cui artisti eseguirono pitture murali di pregevole valore in Russia, in Georgia, in Romania ed in Bulgaria. Lontani dalle rispettive terre d’origine, i pittori si sentirono più liberi verso la propria tradizione per cui la ricerca del realismo e dell’espressione viva del sec. XII raggiunse il suo completo sviluppo nel sec. XIII. In queste località l’opera artistica mostra una visione umanistica pienamente realizzata. Le pitture della chiesa dell’Ascensione di Milesevo (1222-1228), e dell’Acheiropoietos di Salonicco (1230) sono evidenti composizioni di questo nuovo stile. Anche le decorazioni della chiesa della Trinità a Sopocani in Jugoslavia (1260-1265) può essere considerata come vertice e risultato di questa tendenza. In questo periodo la spiritualizzazione delle forme,che aveva raggiunto la perfezione tra il sec. X e l’inizio del sec. XII fondendo astrazione e bellezza classica, lascia ora il campo ad un procedimento inverso. I corpi un tempo filiformi, addirittura inseriti sotto le vesti rigide acquistano improvvisamente volume, la linea lascia spazio al modellato, i volti asciutti del passato si fanno paffuti, le guance acquistano risalto, il naso si allarga, le labbra si fanno più carnose. Anche l’immagine della Vergine in alcuni affreschi ha perso un po’ della severità conferitale dal suo ruolo di Madre di Dio per diventare una donna giovane dall’espressione amabile.

In questo periodo l’iconografia ebbe, inoltre, uno sviluppo spettacolare: i cicli aumentarono, a quelli già esistenti si aggiunsero i miracoli di Gesù, le parabole e le sue apparizioni dopo la morte. All’interno di ciascun ciclo anche il numero degli episodi ebbe un incremento, come pure nell’ambito della stessa scena si moltiplicarono i personaggi. Molti dei nuovi soggetti venivano direttamente collegati alla culto, come quello della divina liturgia con il Cristo officiante tra gli angeli.

Uguale sviluppo ebbero anche i temi mariani; alcune di queste immagini si trasformarono in cicli come quello della Dormizione della Vergine, mentre altri divennero degli equivalenti raffigurativi per inni e lodi come <l’AKATHISTOS> che si canta alla Madre di Dio durante l’ufficio divino. Infine i pittori cominciarono a ricorrere ad allegorie, a metafore e ad interpretazioni di episodi del vecchio testamento come prefigurazione del nuovo.

Nella capitale la prima decorazione eseguita secondo il nuovo stile è costituita da un mosaico in Santa Sofia che rappresenta la <Deesis> con tre figure gigantesche realizzate con rara perfezione e nelle quali possiamo ravvisare una ricerca di espressione emotiva.

E’, infatti, all’inizio del sec. XIV che l’arte bizantina si risvegliò per un’ultima rinascenza. Ritornando alle sue origini, agli antichi modelli della tradizione ellenistica, rimessa in onore dagli umanisti del tempo, l’iconografia perde il suo carattere astratto per farsi vivace e pittoresca, drammatica e graziosa. Questa si arricchisce e si rinnova facendosi più patetica ed appassionata. Il colore armonioso e raffinato è di una tecnica quasi impressionistica.

Tipico esempio di questa tendenza che costituisce il <terzo periodo aureo> realizzato sotto la dinastia dei Paleologi sono i mosaici e le pitture della chiesa del monastero di <Chora> a Costantinopoli, nota con il nome turco Kahriè-giamì che risalgono ad un periodo tra il 1305 ed il 1315.

L’arte del mosaico conservataci nei due vestiboli comprende una intera serie di scene tratte dalla vita di Cristo e della Vergine. Queste immagini ispirate a narrazione apocrife dell’infanzia di Maria ricercano l’elemento pittoresco e fantastico dei costumi e delle architetture, così come la graziosa tenerezza degli atteggiamenti ed il lirismo paesaggistico. Le pitture murali che si trovano nel <Pareclesseion> rappresentano scene della vita dell’al di là in quanto questa era una cappella funebre. Tra queste si nota in modo particolare la discesa di Cristo nel Limbo, che nell’arte bizantina è il modo normale per raffigurare la resurrezione. In questo vano aggiunto alla chiesa gli affreschi in genere conservano un carattere popolaresco e narrativo.

A Salonicco i mosaici dei Santi Apostoli del 1315 manifestano l’attaccamento di questa città alla capitale con una medesima ricerca per l’eleganza. Il settore artistico del 1300 rappresenta il prodotto di una cultura umanistica estremamente raffinata ma che, pur continuando a coltivare la passione per l’antichità, sa scegliere quei modelli che meglio convengono al suo gusto per la grazia, l’eleganza, la fantasia e l’umanità onde esprimere l’essenza lirica della propria profonda religiosità che tende al misticismo.

Queste tendenze idealistiche si concretizzano sempre più dopo la vittoria degli Esicasti. A partire dalla metà del XIV sec. lo stile è caratterizzato da un ritorno al grafico, ai personaggi esili e slanciati e ad una esecuzione piuttosto uniforme. Gli artisti della rinascenza ritenevano che un eccessivo interesse per lo stile dotato di umanesimo avrebbe comportato una rottura con i principi fondamentali dell’estetica bizantina come pure dei  valori dell’ortodossia.

Nonostante la permanenza dei modelli di tradizione ellenistica, le pitture di quest’epoca conservano la freschezza della rinascenza dei Paleologi e le reminiscenze antiche senza divenire completamente dinamiche.

La conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 non comportò la cessazione della produzione di opere d’arte. Sul finire del medioevo nell’isola di Creta si sviluppa una fecondissima scuola pittorica che diffonde opere ed artisti in Grecia soprattutto nelle numerose chiese di Mistrà e, dopo la caduta dell’impero, nei monasteri del monte Athos, delle Meteore e nei Balcani, dove si affianca alla scuola macedone. I pittori cretesi che sono gli eredi più diretti e fedeli della tradizione propriamente costantinopolitana, passano anche in gran numero a Venezia e nelle isole ionie. Le loro pitture mostrano di quale originalità creatrice fosse ancora capace l’arte bizantina, e nel medesimo tempo proiettano l’ultimo splendore sull’epoca dei Paleologi.

I pittori cretesi che si stabilirono a Venezia praticarono con molto successo nella pura tradizione bizantina sia la pittura monumentale e sia quella delle iconi portatili che costituisce da sola una delle più rappresentative categorie artistiche dell’arte dell’epoca.

 La perfezione tecnica e lo stile raffinato di cui era dotato con il tempo assorbendo sempre maggior accenti dell’arte veneziana venne a trasformarsi in quella pittura cretese-veneziana, che da cultura artistica bizantineggiante divenne cultura europea. Lo stesso fenomeno si ebbe anche nelle zone periferiche orientali, chiamate anche Oriente cristiano, dove l’arte bizantina venne posta a fondamento delle arti <nazionali>.

 I popoli, che hanno accolto l’eredità di Costantinopoli ed hanno messo alla base della propria iconografia i suoi moduli, hanno conseguito opere di grande pregio. Inoltre le sue norme per le qualità intrinseche sono servite a distinguere lo stile bizantino da tutte le arti dell’era cristiana per essere stato fedelmente legato alla fede alla quale era dedicato.

CONCLUSIONE

L’espressione artistica della civiltà che si sviluppò nell’impero romano d’oriente, con centro Costantinopoli tra il sec. VI ed il sec. XV, è stata senza dubbio la più alta e la più raffinata. Fu il linguaggio figurativo di una società aulica, che ha ereditato e tramandato ininterrottamente insieme con le forme del cerimoniale monarchico, il patrimonio formale ed iconografico del cristianesimo primitivo.

Per quanto il problema delle origini dell’arte bizantina sia uno dei più dibattuti e controversi, l’inquietudine critica risiede in un equivoco dovuto alla sua impostazione. I principi,  accolti da Costantinopoli e che rimasero a fondamento della visione bizantina attraverso la sua storia, provengono da una cultura cosmopolitana dell’ immenso impero romano unificato da Roma.

L’arte bizantina pur accogliendo la tradizione greco-romana e né poteva fare diversamente, riunì tutti gli elementi validi che provenivano sia dalle altre grandi città del vicino Oriente come pure quelli dei territori più lontani in una fusione completa ed organica e non in una semplice mescolanza eclettica.

A metà del sec. VI il pensiero cristiano era stato già formulato secondo i principi fondamentali dell’ortodossia per cui alla basilica greco-romana che fino allora aveva avuto incontrastato dominio, si sostituisce per il culto eucaristico il tempio accentrato e cupolato che in passato era stato usato in forma riduttiva solo per i <martyria>.

 Tale preferenza in seguito è divenuta senza dubbio sistematica nell’architettura  fino al suo tramonto. La diffusione di questa struttura è stata anche favorita dal concetto simbolico della chiesa, intesa come specchio della creazione divina nel mondo.

Come per l’architettura anche per lo stile i suoi aspetti determinanti si formularono nel sec. VI, questi nel suo sviluppo trovarono la loro perfezione tecnica nel IX-X secolo.

Nelle concezioni fondamentali riguardanti la funzione della pittura monumentale i personaggi sono proiettati in uno sfondo d’oro scintillante e dal momento che si tratta di un colore compatto che non conosce gradazioni nell’intensità, questi si trovano isolati dal mondo esterno, immersi nella luce e totalmente indipendenti dalla nozione di spazio e di tempo. Questo procedimento che colloca la figura umana in un mondo ultraterreno e trascendentale, rappresenta anche la necessità di adattarla nel miglior modo possibile all’architettura che essa decora. Questi principi d’ora in poi costituiscono il cardine dell’arte bizantina al di fuori delle condizioni geografiche o tradizionali.

 La permanenza di questi fattori non si deve confondere con il pregiudizio dell’immobilismo. L’arte bizantina, infatti, pur rimanendo aderente alla propria tradizione ha saputo evolversi nel corso della sua storia. La <renovatio artium> che si ebbe al tempo di Giustiniano nel sec. VI, e sotto la dinastia dei Macedoni sec. IX-X, e dei Comneni sec. XI-XII, come pure dei Paleologi sec. XIII-XV, è una evidente prova. Queste  epoche definite <rinascenze>, infatti, differiscono tra di loro per la scelta dei soggetti, la maniera in cui sono trattati e la vastità del movimento.

Costantinopoli, centro di una civiltà ammirevole, per il suo immenso prestigio ha imposto la propria arte non solo entro i confini dell’impero ma anche oltre frontiera. I popoli di cui essa è divenuta educatrice e che hanno accolto la sua cultura non possono considerare la sua storia morta.

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                                                                       Papàs Antonio Magnocavallo

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