Enrico de Boccard, la guerra civile italiana e le due parti in lotta accomunate “sotto la curva del destino”

Proponiamo, in occasione del 25 aprile, l’incipit ed alcuni stralci di Fondovalle Presidio, un lungo avvincente racconto di Enrico de Boccard (1921 – 1988) scritto dalla parte dei vinti, che dà anche la misura del suo stile vivace e scorrevole.
Il racconto fa parte di un volume pubblicato nel novembre del 1950 dalla casa editrice “L’arnia” col titolo Donne e mitra, che comprendeva un romanzo breve Fine del diario storico e cinque racconti, tutti incentrati sul tema della guerra civile. Successivamente, anche grazie all’interessamento del giornalista e scrittore Manlio Triggiani, fu ripubblicato con una esauriente prefazione di Gianfranco de Turris (che dell’autore fu amico) nel dicembre 1995 dalla casa editrice “Sveva” col titolo senz’altro più azzeccato ed evocativo Le donne non ci vogliono più bene, che rimanda al primo verso di una canzone dei militi della Repubblica Sociale Italiana, che rievoca lo spirito irriverente e anticonformista di tanti giovani che lì militarono. Nel 2022 infine è stato riedito dalla casa editrice Solfanelli, edizione alla quale rimandiamo per la lettura. Come scrive Felice Laudadio nella sua recensione apparsa su SoloLibri.net il 17 giugno 2023, «Non c’è dubbio, questa è più che narrativa. È storia, di un pezzo del nostro Paese e di una parte della sua gente, nei racconti sull’Italia e gli Italiani del 1943-1945, il periodo dell’occupazione nazista del centronord, della Resistenza e della Repubblica di Salò, in cui militava Enrico de Boccard».
Ma chi è Enrico de Boccard?
Appartenente ad una famiglia di nobili origini, di formazione culturale francese, fu «un aristocratico avventuriero», un «uomo imprevedibile ed estroso». Basti pensare che collaborò nel 1967 a “Playmen”, una delle prime riviste erotiche pubblicate in Italia, dove peraltro apparve una sua famosa intervista al filosofo tradizionalista Julius Evola su problemi d’attualità, dalla contestazione alla sessualità. «Enrico – scrive de Turris – era sempre stato un vero personaggio negli ambienti della destra, fuori da ogni schema e da ogni regola acquisita, anche se le sue idee non le mutò veramente mai». Nobile di nascita, «per spirito avventuroso e senso della dignità» scelse la Repubblica e non la Monarchia, e nella sua vita fu, allora e sempre, contestatore di quella rispettabilità borghese che si regge sul denaro, sulla vita comoda e sulla reputazione. Ben potrebbe iscriversi nel filone del “romanticismo fascista” accanto ad autori come Drieu La Rochelle, Brasillach, Céline.
I testi di de Boccard sono senz’altro tra i più rappresentativi della letteratura dei vinti, non solo per autenticità e freschezza, perché scritti ”a caldo”, pochi anni dopo gli avvenimenti narrati, ma anche per il loro indubbio valore letterario: «alla guerra Enrico de Boccard dedica delle bellissime pagine letterariamente parlando, delle pagine anche estremamente efficaci dal punto di vista emotivo, dove accanto a descrizioni oggettive degli avvenimenti inserisce particolari, commenti, incisi, riflessioni, sensazioni soggettive» (de Turris).
Di fronte al sanguinoso dramma che si abbatté su l’Italia tra il 1943 e il 1945, Enrico de Boccard, non ha mai parole d’odio. A differenza di tanti romanzi “partigiani”, Enrico de Boccard nei suoi testi ha accomunato sotto “la curva del destino” le due parti in lotta nella guerra civile, purché in buona fede, purché si avesse, come scrive in uno dei suoi racconti, «qualcosa dentro di sé»: nei suoi racconti dà sempre conto dello scontro tra due opposte ragioni: l’onore e la libertà. Non si tratta, come egli scrive nell’Avvertimento al lettore di un libro “politico” o di memorie, ma di «fermare le caratteristiche di una certa atmosfera». Per questo i suoi racconti e il suo romanzo sono ancora vivi e meritano di non finire nell’oblio o nella damnatio memoriae.
Sandro Marano
da “Fondovalle Presidio” di Enrico de Boccard
Le due macchine correvano sulla statale. Il tramonto invernale si posava sulla vallata dando un senso di tristezza ai contorni indefiniti dei monti. Il tenente D osservava la strada, il fiume che scorreva a sinistra sfrangiando masse d’acqua sulle grosse rupi che ne frenavano la corrente, i monti che chiudevano la valle, le loro schiene nude ricoperte di neve, le case abbarbicate più in basso. Innanzi a lui il collega T guidava, attento a non perdere la distanza con il camioncino che li precedeva. Le due ragazze cantavano, i capelli al vento: ai suoi piedi era posato un mitragliatore, con la sicurezza tolta. Imboccarono un ponticello, entrarono in paese. Una lunga officina fumava proprio all’ingresso. Molti operai stavano uscendo dai cancelli, guardarono le macchine con occhi che volevano essere indifferenti. Traversarono l’abitato seguiti ovunque da quello sguardo. Su di un muro, a caratteri un po’ sbiaditi, con vernice bianca era scritto: “Viva l’Esercito Democratico Popolare”. La strada saliva ora con una discreta pendenza. Una baracca di legno era in cima alla salita, dei cavalli di Frisia sbarravano la strada, lasciando uno stretto passaggio appena sufficiente per una macchina. Da una postazione con sacchetti di sabbia faceva capolino una mitragliatrice. Un soldato con una paletta da segnalazione fece un cenno. Il camioncino accostò a destra e si fermò, ne scese il capitano R. Il soldato, rispettosamente, ma con minuzia cominciò ad osservare ed esaminare i documenti che quello gli porgeva. Intanto dalla porta della baracca erano spuntati altri due soldati con il mitragliatore imbracciato. Scorgendo il capitano abbassarono le canne verso terra, ma rimasero ad osservare, immobili. Un cartello a destra della strada ammoniva in lettere nerastre: “Attenzione bande! Procedere in colonna”.
Il tenente D guardava la ragazza che gli sedeva vicino, stretta tra latte di benzina, uno zainetto pieno di bombe a mano, la grossa cartella di cuoio della corrispondenza ufficiale. Guardava lei e la sorella bionda, seduta presso il collega che guidava. Guardava ora la strada, ora il cartello ammonitore. E nonostante tutto, trovava che questa vita in fondo vale proprio la pena di viverla. Avevan dato loro un passaggio, uscendo dalla grande città.
Erano tutte e due lì, vicino al posto di blocco, agitando le mani alle macchine che passavano, ma nessuna macchina si recava sino ad A***. Lui e il collega sì, che dovevano andarci ad A***. “Per importanti motivi di servizio” specificava un foglio pieno di bolli e firme, e portante l’intestazione di un comando di grande unità. Ad A*** generalmente poche persone avevano voglia di recarsi di propria iniziativa e , di quei pochi, pochissimi erano quelli che, tornando, non avessero da narrare qualche storia avventurosa. Ogni tanto capitavano dei matti, come lui e il collega, che chiedevano semplicemente, che mandassero loro ad A***. Gente che considerava quella strana guerra come un gioco meraviglioso, cui dispiaceva non potercisi mettere in mezzo ogni volta che l’emozione era maggiore. Una partita a poker era: buio, contro buio, e sul piatto la possibilità di beccarsi un bel po’ di proiettili o peggio se si cadeva vivi in mano a “quegli altri”; colore… scala reale e se tutto andava bene, la stessa sensazione, moltiplicata per mille, che si prova chiudendo un poker d’assi, scontrandosi con un poker di K e sul piatto c’è un mucchio di gettoni da non poterli contare. Naturalmente alla base di tutto questo c’era come la pensavano e quella idea per cui ogni giorno rischiavano (…)
Il capitano R , lui, continuava a sparare dal ciglio della strada, mentre i suoi uomini strisciavano per i campi in direzione degli alberi. In mezzo a questi si vide ad un tratto una gran fiammata, cui seguì la piena detonazione d’una bomba a mano. Altre fiammate, altre detonazioni, a D parve di sentire un grido, poi tutto tacque. Raggiunse il capitano R , questi stava intorno alla macchina, intento a rimuovere un gran trave di legno, gettato di sbieco sulla strada.
“Fortuna che me ne sono accorto”, disse a D. “Del resto hai visto? Basta sparargli addosso senza riguardi e se la squagliano che è una bellezza. Beh, ora andiamo. Speriamo che non ci rompano ulteriormente i…“. Risalì in macchina, mentre due dei suoi uomini si sedevano uno per lato, sui parafanghi tra il cofano e i fanali.
Il tenete D è ora di nuovo vicino alla ragazza, tra latte di benzina e la grossa cartella di cuoio della corrispondenza ufficiale. La ragazza (erano un po’ emozionate tutte e due, lei e la sorella, ma in fondo aveva creduto che si sarebbero spaventate di più) lo guardò improvvisamente seria. Gli chiese se fosse fidanzato.“Perché?” le ribatté D.
“Chissà come sta in pena quella poveretta sapendo che fate questa vita”.
“No, non sono fidanzato”, rispose lui. E forse mentiva, forse no, era questione di punti di vista. Le prese una mano così senza dir niente, tanto lì ci dovevano arrivare una volta o l’altra, perciò tanto valeva incominciare subito. Sentì fremere nella sua, impercettibilmente, la mano di lei, poi essa si strinse maggiormente, e mentre la macchina attaccava una rapida salita lui cercò di baciarla, ma lei con un semplice movimento del capo gli sfuggì, poi si volse a guardarlo con una espressione strana.Piano gli sussurrò: “No, non qui”.
Ormai era notte completa, lo scrosciare del fiume, il cupo grido delle civette dava un aspetto di ballata romantica al paesaggio. Grandi nuvole rendevano intermittente il chiarore della luna, improvvisi in cima ad un roccione, apparvero i resti nerastri dell’antico castello di San***.
(…)“L’erba e il vento cicatrizzeranno tutti i crateri delle bombe
Le foglie novelle nasconderanno le ferite dell’albero
La primavera canterà l’amoroso appello degli esseri,
Gradatamente matureranno tutti i frutti dell’albero,
Ma che cosa vi donerà la fine di questa guerra?”Il ritornello della canzone che veniva al di là delle cose a loro quattro, un uomo e una donna, una donna e un uomo saturava tutta la stanza e le loro anime. Veniva, al di là delle cose, da un altro paese in guerra. Anche laggiù si moriva, si moriva come qui, lunghe colonne di giornali listate di nero, ma qui era diverso, ci si ammazzava senza pietà tra gente di uno stesso popolo, di uno stesso sangue e della stessa lingua. E i morti giacevano gli uni accanto agli altri, negli stessi cimiteri, amici e nemici, non riconciliati dalla sorte comune, mentre per vendicarli divampava l’odio tra i vivi.
(…)
Vittorie, grandi parate trionfali, pennoni su cui sventolavano altere bandiere, rotolare maestoso della artiglieria sull’asfalto, tutto questo, sì, ma non è tutto – pensava lui – il sentimento del dovere compiuto senza misurare il proprio sacrificio, anche quando era doloroso eseguirlo, questo sì, ma non è tutto, oppure, atroce come una febbre la sconfitta, una grigia alba che segna il principio di una sofferenza senza speranza, la possibilità di morire senza armi nel pugno, tra il ludibrio degli avversari trionfanti, la rovina di tutto ciò per cui si è lottato facendo soffrire sé stessi e gli altri, questo sì, ma non è tutto. “Cosa vi donerà la fine di questa guerra?”. Probabilmente ne usciremo smarriti al mondo, al vecchio che ci siamo lasciati alle spalle e che per noi sarà già superato, al nuovo, quello che è sorto, perché saremo superati noi. Tutta la nostra vera vita si sarà svolta tra due date segnate sui libri di storia. Ma forse ci resterà l’istinto di cercare, di ritrovare qualcosa che ci sembra di aver posseduto, e che forse è illusione, ma per questo daremo il sangue che ci è rimasto.
Era disteso sotto la coperta, con la gamba sfiorava il corpo nudo di lei.(…)
Sono nuovamente insieme, la ragazza e D, coricati l’uno accanto all’altra, mentre la notte ora tace completamente. Ma lei non è più come prima, sembra staccata da sé stessa, agire per riflessi, come umilmente silenziosa dopo il suo scatto isterico. Cerca di farsi piccina, di farsi perdonare da D. Perdonare, ma cosa? Lui non ci pensa nemmeno più. Era logica, naturale reazione in una donna. Ma lei è fuori di quel suo corpo, che, sotto le lenzuola, è vicino a quello di lui? “Senti – gli dice – senti, devo spiegarti una cosa…”. (Lui ora la tiene stretta, in questo momento breve è sincero con lei, per pochi istanti nel tempo essa è sua, gelosamente sua, e la difende e protegge contro ogni cosa, anche contro sé stessa). Non mi devi giudicare male per questo che abbiamo fatto così. Appena ti ho visto ho capito che sarebbe successo. Non mi capita spesso, ma quando mi viene così sento che non ci posso far niente… Senti, prima ho detto… quelle cose sulla guerra. (Ora la sua mano di nuovo gli afferrava il braccio, come quando la radio diffondeva quella canzone). “Mio fratello, mio fratello è con quegli altri, forse c’era anche lui a sparare… E lui poteva uccidere te, e tu uccidere lui… Uccidere, sono stanca di veder uccidere, di vivere sempre con l’ansia in petto, di tenermi sempre pronto un abito di lutto”. (lui le carezza piano un ricciolo di capelli e ascolta). “Ma perché ti dico così, tanto è inutile, tu hai la tua idea e lui ha la sua. Ma perché esistono le idee?”. (E D ascolta e pensa a quella piccola luce verde-azzurrognola e perché esistono le idee, e perché si fa la guerra. Ma cosa può dirle, tutto sarebbe inutile e assurdo, gli uomini credono nelle loro idee al di sopra del loro amore, le donne scelgono l’idea del loro amore, o forse scelgono soltanto questo e per loro le idee contano relativamente. Ma non serve a nulla dirle tutte queste cose e altre ancora, non cambierebbe nulla).
La ragazza si era calmata. Nelle tenebre, rotte appena dal filo giallastro di luce proveniente dal corridoio, essi attesero l‘alba. E lui capì che loro due, in quel momento, riassumevano una tragedia. Ma loro non potevano farci niente. (…)