All’origine dei dialetti con la prof.ssa Immacolata Tempesta

Invasioni, migrazioni e transiti di numerose popolazioni nel corso della storia hanno inciso profondamente sulla cultura e il modo di agire del nostro Paese favorendo la nascita dei dialetti locali. Ogni dialetto è più o meno nettamente diverso dagli altri anche da quelli geograficamente vicini. Come mai?

Risponde la Prof.ssa Immacolata Tempesta, Prof.ssa Ordinaria di Sociolinguistica dell’italiano dell’Università del Salento.

La storia linguistica del nostro Paese è caratterizzata da una forte frammentarietà storico-politico-sociale-culturale. Già nell’Impero romano il latino si diffuse su aree geografiche con lingue diverse, che agirono sul cambiamento del latino, differenziandolo da area ad area. Alla variazione del latino, diffuso nelle diverse colonie, contribuirono anche altri fattori oltre all’azione di sostrato delle lingue precedenti, quali i diversi periodi di colonizzazione, ad esempio il latino diffuso in Sicilia, provincia romana nel 241 a.C., era diverso da quello della Gallia sett. che divenne colonia romana due secoli dopo (50 a.C.). Dal punto di vista linguistico il territorio che, nel 1946, sarebbe divenuto Repubblica italiana, continuò ad essere frantumato nei vari dialetti che rimasero, fino agli inizi degli anni Sessanta, la principale risorsa comunicativa delle varie comunità. I centri abitati demograficamente medio/piccoli erano delle comunità chiuse o con una ridotta mobilità verso l’esterno e usavano dei codici dialettali propri. Esistono, tuttavia, dei caratteri condivisi che ci permettono di aggregare i vari dialetti in alcune grandi famiglie dialettali: settentrionale, centro- settentrionale, Toscana, centro meridionale, meridionale estrema, con i confini linguistici di La Spezia-Rimini, Roma-Ancona, Taranto-Ostuni in Salento, Nicastro-Catanzaro in Calabria. Accanto agli elementi di convergenza esistono numerosi elementi di differenziazione, anche tra microaree, nell’ambito di una stessa famiglia dialettale. Non dimentichiamo che nel territorio italiano sono presenti anche numerose minoranze alloglotte che parlano lingue diverse dall’italiano e dai dialetti (ad es. la minoranza grica in Salento, quelle albanese e franco-provenzale in Puglia). La legge 482 del 1999 tutela queste lingue e contiene  norme specifiche per l’insegnamento nelle scuole.

Il dialetto rivela la personalità di un popolo, la sua identità e la sua storia? 

Il dialetto è, come tutte le lingue, un codice identitario importante. Ogni dialetto racchiude la specificità culturale e storica della realtà che rappresenta.  Il rapporto tra questo codice e i parlanti appare, tuttavia, molto complesso. Nella storia sociolinguistica dell’Italia, l’italiano è stato il codice del cosiddetto “prestigio manifesto”, la lingua di accesso all’istruzione e, in genere, ai ceti sociali alti; il dialetto è stato il codice del “prestigio occulto”, prestigioso cioè esclusivamente all’interno della comunità che lo parla, avendo, invece, all’esterno lo stigma di lingua degli incolti, dei ceti sociali bassi.

A che cosa sono dovuti i diversi accenti, inflessioni, cadenze e toni dialettali? Perché alcuni sono più gradevoli da sentire ed altri più volgari? Alcuni più dolci ed altri più duri, scatenando a livello emotivo dinamiche diverse? La stessa frase pronunciata in due dialetti diversi per sottolineare ad esempio, un aspetto negativo al proprio interlocutore può dare luogo a due diverse reazioni contrapposte tra loro, a causa del tono e del modo poco educato e per niente sensibile  usati. Ciò è dovuto all’influenza di popoli barbari piuttosto violenti che hanno dominato alcuni territori nei secoli?

Il livello fonetico di una lingua, cioè dei suoni con cui si articolano le vocali, le semivocali, le consonanti, insieme al  livello prosodico e a quello intonativo, è il livello che conserva maggiormente i propri caratteri areali, resistendo a possibili innovazioni. Le lingue possono presentare aggettivazioni varie, dure, dolci, eleganti, aspre, ecc. sulla base di diverse  sensazioni. Il criterio estetico è stato usato in alcuni casi come criterio di valutazione linguistica. Dante Alighieri, nel De vulgari eloquentia, agli inizi del XIV secolo, scrive che gli Apuli «turpiter barbarizant» nella propria lingua, cioè fanno uso di barbarismi. Nella maggior parte dei casi, però, la lingua veicola le valutazioni sociolinguistiche, gli stereotipi che, nel corso della storia, si sono accumulati su di essa e che provengono da giudizi non sulla lingua, ma sui parlanti di quella lingua.  

Il dialetto esprime più fortemente quello che si vuole comunicare scavalcando il giro di parole, arrivando subito al punto di ciò che si vuole dire?

Il dialetto è stato e, in alcuni casi, continua ad essere, la lingua di comunità impegnate soprattutto in attività materiali, in lavori per i bisogni primari, come emerge anche da  l’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale AIS (1928-40), uno dei principali strumenti di conoscenza dei dialetti italiani. Questo può far pensare che il dialetto ‘vada subito al sodo’. Non dimentichiamo però che, in Italia,  abbiamo una letteratura dialettale straordinaria.

Anche i dialetti hanno subìto delle variazioni, si sono modernizzati. C’è una spiegazione?

I dialetti, come tutte le lingue, sono convenzioni sociali e cambiano nel tempo. La realtà linguistica italiana ha presentato e presenta importanti ritorni e rivisitazioni dei dialetti apparentemente in via di sparizione. Il dialetto è regredito in alcuni domini e si è rinforzato in altri. Si è rinnovato assumendo  funzioni e caratteri nuovi o consolidando quelli che già gli erano propri; viene usato sempre più spesso in compagnia o in simbiosi con l’italiano.

La qualità e la quantità delle trasformazioni fanno ipotizzare un neo-dialetto, un dialetto caratterizzato da nuove procedure di organizzazione e da nuovi esiti. Si sono affermati, ad esempio,  sinonimi di parole dialettali che richiamano l’italiano, come nel lessico pugliese schitt∂  –> soltand∂ per “soltanto”, manta –> cuperta per“coperta”, darass∂ –> lundan∂  per “lontano”.

L’introduzione di forme italianizzanti è stata considerata un elemento di indebolimento del sistema dialettale, che avrebbe potuto provocare la perdita di questo codice. L’evoluzione recente ha invece riconosciuto a questi processi di rinnovamento, provenienti dall’esterno, la funzione di difesa e di recupero di vitalità dei dialetti, seppure in una configurazione nuova negli usi come nelle strutture. 

L’italiano è un nuovo dialetto?

L’italiano nasce da un dialetto romanzo, quello fiorentino, usato dai gruppi più colti, che diventerà la lingua italiana grazie a diverse valutazioni linguistiche, riguardanti una produzione letteraria importante, come quella, ad esempio, di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma anche storiche e socio-economiche. Molti fenomeni del fiorentino non sono stati accolti dall’italiano, ad esempio la gorgia toscana che prevede l’aspirazione di k, t, p in determinate condizioni. L’italiano non è un nuovo dialetto, continua a convivere con altre risorse del nostro repertorio linguistico, fra queste anche con i dialetti, che presentano, a loro volta, come già scritto, cambiamenti significativi. Nel decennio Ottanta-Novanta si sono sottolineate le deviazioni, sempre più consistenti, dell’italiano dalla norma, i nuovi usi di quello che è stato definito italiano tendenziale, italiano selvaggio. A questi temi sono stati dedicati numerosi studi, di grande interesse. L’affermazione dell’italiano come lingua per tutti, non più aristocratico strumento dei colti,  a  contatto con diverse varietà del parlato e  con i dialetti, ha prodotto un allargamento dei suoi confini con nuovi usi, per. es. l’uso  di “gli” con valore di “le” e “loro”, l’uso del tempo imperfetto dell’indicativo in sostituzione di altri tempi (ad es. se sapevo questo non venivo).

I dialetti sono vere e proprie lingue?

I dialetti sono sistemi linguistici come tutte le altre lingue. Hanno una propria configurazione fonetica, lessicale, morfosintattica, testuale, pragmatica, intonativa. Non hanno avuto il processo della standardizzazione, per cui non hanno un carattere o un’estensione nazionale e non sono quindi la nostra lingua standard nazionale, che è la lingua italiana. Ma sono le lingue native e d’uso per molti italiani, nelle diverse aree del nostro Paese.

Quanti sono i dialetti parlati in Italia? Quali i più diffusi?

Dante nel De vulgari eloquentia scrive di quattordici grandi volgari italiani, all’interno dei quali sono presenti molte variazioni. La divisione dantesca ha come punto di riferimento la catena appenninica. Se si consulta la Carta dei dialetti d’Italia di G.B. Pellegrini (1977) le aree dialettali geograficamente più estese appaiono quelle che lo studioso chiama meridionale intermedia, meridionale estrema, gallo italica (la Carta si può consultare anche su https://phaidra.cab.unipd.it/imageserver/o:318149). Dai dati Doxa del 1996 e da quelli Istat del 2000 le regioni in cui l’uso del dialetto è più diffuso risultano le Tre Venezie e quelle del Centro Sud; l’uso maggiore si registra nelle Marche, nell’Umbria, in Basilicata e in Calabria.

Possiamo definire il dialetto come varietà di una lingua o come una lingua che si è evoluta da un’altra lingua o ancora come lingua subordinata ad un’altra lingua?

I dialetti romanzi sono lingue provenienti dal latino, come il fiorentino che ha, poi, assunto il valore e la funzione di lingua italiana.

Perché il dialetto viene parlato abitualmente soprattutto dalle classi meno abbienti e “disprezzato” dai più borghesi?

Per l’intero Ottocento le evoluzioni della lingua letteraria e quelle della lingua parlata, in particolare del parlato popolare, continuano a seguire percorsi autonomi, per buona parte paralleli. La questione della lingua, da Dante in poi, rimane una questione di scelta di una lingua nobile, che dovrebbe servire ad esprimere nobili contenuti, una lingua selettiva, letteraria, riservata agli strati più alti, più colti della popolazione. Con l’Unità d’Italia, l’esigenza di un’unificazione linguistica ha rafforzato l’immagine sociale positiva dell’italiano, lingua del successo, del progresso, e quella negativa dei dialetti, considerati elementi di disturbo all’avanzamento sociale, o  alla persistenza  in una fascia sociale alta. Oggi i dialetti svolgono funzioni parzialmente diverse rispetto al passato: i giovani lo usano come segnale di gruppo o per fini giocosi; la musica lo adotta in una sorta di ritorno alle origini. Il carattere elitario delle origini dell’italiano, che per un lungo periodo è stato il codice di una cerchia di letterati, ha portato all’affermazione di uno stereotipo sociale che vede l’italiano accomunato all’istruzione e al benessere,  mentre  il dialetto all’analfabetismo e alla miseria. Ciò  ha favorito la diffusione dell’italiano, anche nelle sue varietà più lontane dalla norma.

Ci sono opere letterarie famose pugliesi scritte in dialetto?

 Premesso che le funzioni principali dei dialetti sono quelle della lingua parlata, abbiamo opere notevoli in diversi dialetti italiani, alcuni dei quali sono delle vere koinè dialettali, come il veneziano, il napoletano.  L’area dialettale pugliese a nord del confine Taranto-Ostuni e l’area dialettale salentina a sud presentano importanti opere letterarie di diversa datazione e  rilevanza come, ad es.,  l’Esposizione del Pater noster di Antonio Galateo (1504-08), le opere diFrancesco Antonio D’Amelio (1775-1861), Giuseppe De Dominicis (1869-1905), Antonio Nitti (Bari, 1886-1951), la poesia dialettale di Alfredo Giovine (1907-1995), le opere di Pietro Gatti (1913-2001),  la poesia dialettale di Nicola G. De Donno (1920-2004).  

Il dialetto dovrebbe rientrare nel programma d’istruzione delle scuole pubbliche in quanto rappresenta un patrimonio linguistico da salvaguardare?

 Per rispondere a questa domanda bisogna prendere in considerazione alcuni fatti importanti.

  1. Nel periodo post-unitario la scuola ha indebolito i dialetti, stigmatizzandoli. Ciò non ha impedito la produzione di una notevole quantità di  vocabolari, grammatiche e opere varie sui dialetti.
  2. In Italia il contatto tra italiano e dialetto non è un contatto da bilinguismo, ma un contatto da dilalia. Nella dilalia non si padroneggiano due lingue paritarie, come nel bilinguismo, ma i due codici hanno una netta differenza di azione e di funzione. In alcuni contesti, ad es. quello scolastico, prevale l’italiano, in altri contesti, ad es. quello familiare, può prevalere il dialetto. Questo uso parziale dei due codici porta ad una coesistenza di competenze e di usi linguistici diversi nelle varie situazioni e quindi  ad una conoscenza parziale dell’una e dell’altra lingua.

L’insegnamento dei dialetti non garantisce la conservazione degli stessi; appare certamente utile la conoscenza delle variazioni del repertorio linguistico, che comprende l’italiano e le sue varietà, i dialetti e le loro varietà, le lingue delle minoranze  alloglotte,  le nuove lingue immigrate, che permetterebbe  un più facile accesso sia alla lingua italiana che ai vari dialetti, considerati come lingue vive non come reperti museali da salvaguardare. Il rispetto e l’ottimizzazione delle lingue materne, sia che si tratti dell’italiano, sia che si tratti dei  dialetti o di lingue straniere, porterebbero ad un’educazione linguistica democratica con una maggiore consapevolezza e una migliore conoscenza delle risorse comunicative disponibili in Italia.

Cinzia Notaro