25 aprile. Tra divisioni ed anacronismo.

Ha senso ancora celebrare il 25 aprile? O come suggerisce Massimo Fini è “un eccesso di riverenza verso il passato”? Marcello Veneziani in un articolo apparso su La verità del 24 aprile 2019 elencava ben sette motivi per cui lui non ritiene (e noi con lui) di dover celebrare questo evento. Ma, a ben guardare, quei sette motivi si riducono ad uno solo e fondamentale: questa festa non ha un carattere nazionale, non è inclusiva, non appartiene a tutti gli italiani, perché scava tra di loro un fossato d’odio. rinfocola divisioni ed odi che è ormai tempo di consegnare, com’è giusto che sia, alla storiografia. Il 25 aprile 1945, infatti, segnò l’epilogo drammatico d’una sanguinosa guerra civile, che vide l’Italia divisa tra due schieramenti, con due opposte visioni del mondo, che si affrontarono senza esclusioni di colpi e scrissero entrambi pagine di efferatezza, ma anche di eroismo.  Il 25 aprile, come argomenta Veneziani, «non rende onore al nemico ma nega dignità e memoria a tutti coloro che hanno dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta», mentre «è vietato ricordare le pagine sporche o sanguinarie che l’hanno accompagnata e distinguere tra chi combatteva per la libertà e chi voleva instaurare un’altra dittatura».

Ricordiamo, en passant,  i passi finali del capolavoro di Cesare Pavese La casa in collina (che tante incomprensioni ed ostilità gli costarono da parte dell’ambiente letterario più conformista):

«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. (…) Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta , e gliene chiede ragione. (…) Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Storicamente nessuno dei belligeranti (americani e sovietici e  tedeschi, partigiani e fascisti) può considerarsi immacolato. Solo partendo da questa elementare constatazione si può fondare una memoria condivisa. Come scrive, non a torto, Veneziani una memoria condivisa la avremo «quando riconosceremo che uccidere Mussolini fu una necessità storica e rituale per fondare l’avvenire, ma la macelleria di Piazzale Loreto fu un atto bestiale d’inciviltà e un marchio d’infamia sulla nascente democrazia. Quando riconosceremo che Salvo d’Acquisto fu un eroe, ma non fu un eroe ad esempio Rosario Bentivegna con la strage di via Rasella. Quando ricorderemo i sette fratelli Cervi, partigiani uccisi in una rappresaglia dopo un attentato, e porteremo un fiore ai sette fratelli Govoni, uccisi a guerra finita perché fascisti. Quando diremo che tra i partigiani c’era chi combatteva per la libertà e chi per instaurare la dittatura stalinista. (…) Quando celebrando la Liberazione ricorderemo che nel ventennio nero furono uccisi più antifascisti italiani nella Russia comunista che nell’Italia fascista (lì centinaia di esuli, qui una ventina in vent’anni); che morirono più civili sotto i bombardamenti alleati che per le stragi naziste; che ha mietuto molte più vittime il comunismo in tempo di pace che il nazismo in tempo di guerra, shoah inclusa».

Il 25 aprile, comunque la si voglia considerare, resta la celebrazione di una parte contro l’altra, non può fondare una memoria condivisa. A che pro dunque riprodurre questa divisione tra italiani? Non è anacronistica, impietosa, ingiusta?

Se gli ideali di libertà e giustizia trovarono dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 la loro consacrazione nella prima parte della Costituzione italiana, che entrò in vigore il 1 gennaio 1948, non è forse più giusto fare del 2 giugno o del 1 gennaio la festa di tutti gi italiani lasciando nel museo della storia il 25 aprile?  

Sandro Marano

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