Il Governo Meloni apre allo ius soli

cats

Il nuovo decreto legge cambia il paradigma: meno spazio allo ius sanguinis, più peso al territorio. E ora lo ius soli non è più un tabù.

Con il decreto legge n. 36/2025, convertito in legge con modificazioni, il Governo ha inteso intervenire sul tema della cittadinanza per discendenza, con l’obiettivo dichiarato di contrastare i cosiddetti “automatismi genealogici” che hanno condotto, nel tempo, al riconoscimento della cittadinanza italiana a soggetti senza legami concreti con il territorio e la cultura nazionale.

L’intento, da un punto di vista amministrativo era più che comprensibile: arginare un fenomeno percepito come inflazionato e alleggerire il carico operativo dei consolati italiani, spesso sovraccarichi di richieste da parte di cittadini stranieri discendenti da avi italiani.

Tuttavia, la soluzione normativa adottata presenta aspetti critici sia sul piano sistematico sia su quello costituzionale.

La legge 91/1992 sulla cittadinanza fondava l’acquisizione della cittadinanza per nascita sul principio dello ius sanguinis (art. 1): è cittadino italiano il figlio di padre o madre italiani. Il nuovo art. 3-bis, inserito con il decreto-legge, stabilisce però che “è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero”, salvo alcune eccezioni elencate successivamente (condizioni a, b, c, d).

Questo inciso rappresenta un potenziale cambio di paradigma. Pur mantenendo formalmente il principio del legame di sangue, la norma introduce una deroga generalizzata e categoriale basata sul luogo di nascita, relegando la discendenza a un ruolo secondario. Il risultato è che chi nasce all’estero, anche da genitori italiani, potrebbe non essere considerato cittadino, salvo il ricorrere di ulteriori condizioni.

In questa prospettiva, l’acquisizione della cittadinanza non dipenderebbe più primariamente dalla trasmissione familiare, ma da una combinazione di fattori tra cui il luogo di nascita assume un ruolo dirimente. Un effetto paradossale, specie per un ordinamento che da sempre ha privilegiato lo ius sanguinis e rifiutato qualsiasi forma automatica di ius soli.

In casi limite, ma astrattamente possibili (un tempo si chiamavano “casi di scuola”), ciò potrebbe comportare l’esclusione dalla cittadinanza italiana di individui nati all’estero da genitori italiani, in assenza dei requisiti previsti come eccezioni.

Le associazioni degli italiani all’estero hanno già preannunciato ricorsi e sollevato dubbi di costituzionalità. Ma oltre all’argomento – certamente rilevante – della compressione dello ius sanguinis, ve n’è un altro ancora più suggestivo, e al momento non ancora troppo indagato: se la legge subordina l’acquisizione della cittadinanza al luogo di nascita, anche in deroga al legame di sangue, non si può più escludere logicamente che il nascere in Italia diventi a sua volta un criterio fondante per l’attribuzione della cittadinanza.

Il sistema che ne deriva, benché non formalmente ispirato allo ius soli, rischia di produrne gli effetti in via giurisprudenziale. La Corte Costituzionale, che sicuramente sarà chiamata a valutare la legittimità di questa nuova regolamentazione, anziché focalizzarsi sulla presunta compressione dello ius sanguinis, potrebbe ritenere invece irragionevole escludere, dalla acquisizione della cittadinanza alla nascita, un individuo nato da cittadini stranieri, a fronte del fatto che un altro individuo, nato all’estero da italiani, non viene riconosciuto tale:  non sembra poi così improponibile come scenario.

La nuova disciplina, infatti, sembra introdurre uno ius soli ad excludendum (se nasci fuori dal territorio, non sei italiano), senza però prevedere un corrispettivo ius soli “ad includendum”. Ne deriva una possibile violazione del principio di uguaglianza: il legislatore discrimina in base al luogo di nascita, senza che tale criterio sembri sempre razionalmente giustificabile.

Dobbiamo tener presente inoltre che il nostro ordinamento riconosce già poi – ai sensi dell’art. 4, co. 2 della legge 91/1992 – la possibilità di acquisire la cittadinanza per chi nasce in Italia da genitori stranieri, purché vi risieda legalmente e ininterrottamente fino ai 18 anni, e presenti tempestivamente la relativa domanda.

Adesso, con questo ius soli ad excludendum voluto dal Governo Meloni,  a mantenere in vita il sistema di ius sanguinis rimane solo una proposizione all’intenro di questo comma dell’art. 4. Cancellata la frase “che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età”, questo articolo si leggerebbe semplicemente “Lo straniero nato in Italia diviene cittadino”, e sarebbe assolutamente coerente con l’impianto della normativa varata da questo Governo prima e confermata dal Parlamento poi, in cui chi nasce all’estero cittadino non è.

Nel tentativo di irrigidire i criteri per il riconoscimento della cittadinanza per discendenza, il legislatore potrebbe aver aperto, inconsapevolmente, una breccia in direzione opposta: quella di una maggiore rilevanza del territorium rispetto al sanguis. Una contraddizione non da poco per forze politiche che hanno sempre osteggiato qualsiasi apertura allo ius soli.

Se così fosse, non saremmo di fronte solo ad un’operazione ironica (il governo di Meloni, Salvini & Co. che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento un principio di ius soli), ma a un paradossale errore di valutazione normativa: quando il diritto si fa strumento ideologico e si riduce a slogan, poi non ci si preoccupa di osservarne a fondo le conseguenze sistemiche.

Antonio Ruccia