Al termine del racconto della creazione di tutto ciò che esiste, in coda al secondo capitolo della Genesi, relativamente all’Uomo si legge: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”. Adamo ed Eva, nella loro pienezza e corrispondenza all’immagine del Creatore, gli somigliavano perfettamente anche in quella nudità per la quale non provavano vergogna.

Lo stato di nudità, nel quale erano stati creati, non procurava loro alcun imbarazzo. Entrambi erano nella verità e la verità coincideva con l’auto-comprensione del loro stato di nudità. Senza dover scomodare psicologi o esegeti della lingua, concordo sulla descrizione, sintetica, che Wikipedia dà al concetto di “vergogna” come “un’emozione che accompagna l’auto-valutazione di un fallimento globale nel rispetto delle regole, scopi o modelli di condotta condivisi con gli altri; da una parte è un’emozione negativa che coinvolge l’intero individuo rispetto alla propria inadeguatezza, dall’altra è il rendersi conto di aver fatto qualcosa per cui possiamo essere considerati dagli altri in maniera totalmente opposta rispetto a quello che avremmo desiderato”. Dunque, i primogenitori all’atto della creazione si riconoscevano pienamente in sé stessi, in ciò che effettivamente erano, identificandosi esattamente nel “progetto” di Dio, nella sua immagine e somiglianza.

La caduta nella tentazione porta come primo effetto che i “due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Ma come mai dopo la caduta quella nudità portò loro turbamento e vergogna? I primogenitori, dopo aver accantonato le indicazioni ricevute dal Creatore, e dopo aver accolto l’invito del serpente, si accorgono di essere nudi. Perché non provarono vergogna per altro e se non per la propria nudità? La nudità, nella quale già versavano, gli si presenta come giudizio nel momento in cui rinnegando se stessi tentano di sostituirsi a Dio. A quel punto la nudità, diventa per loro intollerabile, qualcosa dal quale prendere le distanze. Per la prima volta nella storia umana l’essere si discosta dall’apparire, l’immagine dalla somiglianza. La nudità, condizione naturale fino a poco prima, diventa per loro prova del tradimento al proprio essere.

“Intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. L’uomo non prende atto dell’errore nel quale è incorso, non lo riconosce, non ritorna alla nudità, ma comincia a mentire e a mistificare anche il mondo circostante. Nasconde il proprio essere creandosi una immagine artefatta e nuovi idoli ai quali somigliare. Sceglie la strada del rinnegamento della propria identità, comincia a giustificarsi, a travestirsi, ingannando sé stesso per primo. E’ lui stesso che “intreccia” una storia alterata, lontana dalla Verità e dalla propria nudità che però resta lì impassibile e muta sotto le “cinture” posticce. E la falsità inizia ad inquinare il mondo. Incolpa la carne della sua carne, l’osso delle sue ossa (Gen. 2, 23).

Intraprende un’esistenza da fuggiasco, lontano dalla sua nudità e da quella libertà che solo la Verità potrà restituirgli. Da questo momento l’uomo non è più l’Uomo. La sua immagine, la sua somiglianza al Creatore è deturpata ma non sradicata come forse avrebbe stoltamente voluto. Si nasconderà di fronte a Dio e tenterà di nascondere a sé stesso la propria nudità che se accettata lo riporterebbe al Creatore. Pretenderà di erigersi a legislatore e ordinatore di un mondo che non ha creato, che non conosce e che non lo riconosce più nel nuovo ruolo che si è ritagliato. Vorrà darsi un ordine ed una pace che non potrà mai raggiungere senza prima fare i conti ed accettare la propria nudità, senza dare risposte alle domande che l’immagine divina, della quale è costituito, suscita costantemente in lui.

È proprio l’Immagine di Dio, ontologicamente presente nell’uomo, a non restare sopita, a non rimanere sterile. Questa vitale componente soprannaturale dell’Uomo gli dà tormento per essersi consegnato ad una volontà prevaricatrice e difforme rispetto alla sua natura, e per aver optato per l’arbitrio anziché per la libertà. Questo disordine introdotto dall’uomo nel mondo è una ferita aperta e mortale che solo il nuovo Adamo ha potuto sanare mostrando al vecchio la Via del ritorno, la nuda Verità, la vera Vita (Gv. 14, 6).

Il Cristo, l’Uomo Dio, il Primogenito dei risorti, si è mostrato nudo a Betlemme, e nudo sulla Croce ha proferito il tutto è compiuto ricongiungendo l’Uomo a Dio, mentre i soldati gettavano la sorte sulla sua veste. Nudo di fronte agli uomini e nudo di fronte al Padre, sospeso tra cielo e terra, simile alla creatura appena plasmata dal suo Creatore, ha restituito al Padre l’Uomo come egli lo desidera. Ai suoi discepoli ha rivelato e predicato la nudità primordiale dicendo “chi mi vuole seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8, 27-35), “va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 10, 21), “se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18, 3). Ecco dunque avviato il nuovo Regno, un Regno nel quale l’uomo non può non entrare che in quello stato primordiale: nudo. Tra i sacramenti istituiti da Cristo, tra i mezzi messi a nostra disposizione per conquistare ciò che era stato perso, uno in particolare richiama la nudità di Adamo: la confessione.

Nella confessione abbiamo l’opportunità di tornare di fronte a Dio come lo era stato Adamo dopo la caduta. Cosa faremo dunque, ci cingeremo di foglie di fico? Troveremo giustificazioni ai nostri fallimenti, sovvertendo la realtà? O forse sarà più intelligente e più umano mostrarsi al Creatore spogliandoci degli orpelli che coprono la nostra reale identità, rispetto alla quale dobbiamo spiegazioni per la nostra mancata corrispondenza?

Paolo Scagliarini

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