Senza bellezza non possiamo vivere

In altra parte del nostro periodico ci siamo soffermati sul cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa Cattolica con l’obiettivo principale di dare spazio all’ascolto ed al racconto della vita delle persone. In quest’ottica di ascolto, ci inseriamo volentieri prestando la dovuta attenzione a chi da tempo è concentrato sulle molteplici dinamiche della vita della Chiesa. Per questo non solo proponiamo il libro “Senza bellezza non possiamo vivere” ma, al fine di una più completa comprensione, abbiamo posto delle domande alla sua autrice Eleonora Casulli,  

Nel suo libro spiega che la liturgia “non è diventata più comprensibile, ma povera, banale e noiosa”. Forse è anche per questo che le chiese come lei scrive “non si sono nuovamente riempite, ma inesorabilmente svuotate”?

È certamente questo uno dei motivi, non l’unico: tale tragico, progressivo svuotamento, ancora in atto, il quale ha avuto purtroppo un’impennata a seguito della pandemia, è il risultato di scelte fatte nella Chiesa Cattolica su più fronti, non solo su quello liturgico. Certamente sono tanti i fedeli che, a un certo punto, smettono di partecipare alla messa domenicale semplicemente perché la trovano noiosa: il che fa pensare a una fede che non è maturata insieme all’età anagrafica e, induttivamente, ad una lex orandi che non aiuta, anzi spesso ostacola la maturazione personale della lex credendi dei fedeli.

Ratzinger parla apertamente di banalizzazione della liturgia come di uno dei nefasti risultati dell’interpretazione errata e sbilanciata della Sacrosanctum Concilium, in particolare del capitolo VI dedicato alla musica sacra, cominciata nell’immediato post-concilio e proseguita fino ad oggi. Se nel dettato conciliare si tenta di mantenere un delicato equilibrio fra liturgisti e pastori d’anime, fra chi riteneva irrinunciabile l’uso della musica sacra della tradizione occidentale nella liturgia cattolica e chi sosteneva che bisognasse dismetterla, per far spazio ad un nuovo repertorio in lingua corrente e musicalmente comprensibile e cantabile senza sforzo da parte di tutti i fedeli, subito dopo il Concilio è avvenuto lo sbilanciamento totale verso le istanze di questi ultimi. Da qui la banalizzazione della liturgia, che avviene laddove si mette alla porta la bellezza intesa come espressione artistica elevata (in riferimento sia alla musica sacra, sia all’arte sacra, sia per estensione ai paramenti, agli arredi, ai vasi sacri, all’architettura delle chiese…), la quale però è l’unica in grado di comunicarci la sacralità di ciò a cui da fedeli stiamo partecipando, e ci si sottomette semplicemente all’uso, alla musica utile a far cantare l’assemblea; per cui si mette alla porta la musica sacra della tradizione occidentale, che per secoli è stata messa al servizio della liturgia, per arricchirla, solennizzarla, e “comunicarla” al cuore dei fedeli ed elevarli verso Dio, secondo lo spirito del “sursum corda”, e si fa spazio a una semplicità che viene dal banale, che segue la via della povertà psichica (sono parole di Ratzinger), che abbassa il divino a livello dell’umano invece di elevare l’uomo e fargli sentire l’abbraccio con Dio.

Ecco la noia, ecco la difficoltà a comprendere, nonostante le parole in italiano si capiscano più o meno tutte, cosa ci faccio io qui per tre quarti d’ora ogni domenica: vengo per ascoltare la Parola di Dio? La Bibbia posso leggermela a casa. Vengo per l’omelia? Noiosa, pesante, difficile. Vengo per incontrare i parrocchiani? Quasi tutti vipere dalla doppia faccia. Se tolgo l’incontro con Dio e con Cristo che mi redime col suo sangue, se tolgo il sacro dall’azione sacra, quindi dalla musica sacra e dall’arte sacra che me lo rappresentano e comunicano, cosa resta? Il nulla. Il sale che ha perso il sapore e può solo essere gettato e calpestato. 

In questa epoca modernista che da decenni attraversa la Chiesa si sono introdotte nelle celebrazioni musiche “profane” per andare al passo coi tempi. Tuttavia la sacralità ne è andata di mezzo, perché se così si può dire, ha spento la spiritualità ed alimentato la parte emotiva dei fedeli che partecipano alla liturgia. Si è passati ad una certa desacralizzazione che allontana dall’adorazione e dalla contemplazione del mistero, vero?

Certamente sì, questo è il rischio, dice Ratzinger, e senza generalizzare bisogna ammettere che in molti casi è un rischio che si è concretizzato.  Aver introdotto nella liturgia musiche “profane”, cioè stilisticamente e testualmente molto simili alla musica leggera nelle sue varie declinazioni, con l’intento di avvicinare (o riavvicinare) i fedeli alla liturgia stessa, permettendo loro di comprenderla meglio e meglio armonizzarla con la loro vita, senza che la percepissero come qualcosa di estraneo, obsoleto, retrò, non più valido, è stato come voler facilitare un bambino di sei anni nel suo imparare a leggere, leggendo le paginette al suo posto e facendogliele ripetere a memoria. L’eterogenesi dei fini, alla luce della realtà della Chiesa d’occidente nel 2022, sembra essere stata totale.

L’idea di fondo, che Ratzinger ben descrive e altrettanto nettamente confuta, è quella secondo la quale Gesù Cristo abbia voluto eliminare totalmente la realtà del Tempio giudaico, dei sacerdoti e del culto solenne e immutabile dovuto a Dio, indicando ai cristiani che adesso l’unico Tempio è la casa dell’uomo, che il culto cristiano è un nuovo culto assimilabile alla vita quotidiana, quindi “profano”, che la santità e la sacralità vere si trovano solo negli ambienti della vita quotidiana. Di conseguenza, niente più chiese che sembrino chiese (quante ne vediamo che sembrano caseggiati anni ’70 o fabbriche o capannoni…), niente più solennità nel culto cristiano e quindi niente più musica liturgica del passato. Anche la musica dev’essere quella della vita quotidiana, dev’essere “profana”.

Ratzinger afferma che già la Chiesa delle origini aveva ben presente che il culto dovuto a Dio e i canti che lo accompagnavano dovevano essere adatti, adeguati, purificati da tutto ciò che era estraneo, appunto, al culto divino. Ne è prova l’utilizzo del salterio letto in chiave cristologica e la composizione già nel primo secolo di Inni cristiani, molti dei quali andati perduti, ma altri rimasti nel Nuovo Testamento. L’eredità del Tempio giudaico è stata via via assunta, purificata alla luce della fede in Cristo e ampliata in una dimensione universale: è il Cosmo il Tempio di Dio, la liturgia cristiana, nella quale avviene il memoriale della redenzione operata da Cristo, chiama in se stessa l’intero universo e l’uomo, con le sue facoltà, che è al vertice della creazione, deve allo stesso tempo rendere ragione di tutto ciò e poterlo in qualche modo percepire. Come è possibile percepire tutto questo, e tanto altro, cantando canzonette pop strimpellate alla chitarra mentre i fedeli fanno la Comunione? Come è possibile rendere ragione della dimensione cosmica della liturgia cristiana, accompagnandola con musica rock? Quando va bene si sollecitano alcune corde emotive dell’animo umano, che danno un certo trasporto effimero e momentaneo. Ma la spiritualità, cioè la risposta dell’uomo all’azione dello Spirito Santo in lui, la contemplazione e l’adorazione del Mistero sono ben altro.

Quanto è importante l’atto interiore dell’ascolto e dell’attenzione nella partecipazione dei fedeli all’azione liturgica?

Per actuosa participatio non possiamo intendere soltanto una partecipazione attiva nel senso di “partecipare alla liturgia svolgendo una qualche attività, facendo effettivamente qualcosa”. È questo il grave errore che ha portato tante storture nel modo di celebrare e vivere la celebrazione eucaristica in generale. Rispetto alla musica, questo errore di fondo ha portato a credere che “favorire la partecipazione attiva dei fedeli” significasse fare in modo che tutti i fedeli cantino tutti i canti liturgici. E’ questa un’interpretazione riduzionistica, funzionalistica, estremamente parziale e marginale di quello che i padri conciliari, e il Movimento Liturgico che nel Concilio Vaticano II è sfociato, hanno inteso significare con l’espressione actuosa participatio. In italiano per tradurre fedelmente questa espressione dovremmo dire, per esempio, “partecipazione piena, consapevole e attiva”. Io che seguo e sposo la visione dell’uomo del personalismo filosofico cattolico, e ciò che ad esso corrisponde nella psicologia e nella pedagogia, amo definire la partecipazione attiva come una partecipazione personale, cioè della persona nella sua interezza, di tutte le facoltà della persona umana: i sensi, la corporeità, l’intelletto, la volontà, l’emotività, la spiritualità, l’interiorità, l’autocoscienza; questo e altro ancora fa parte della persona umana che è un tutto unitario, non riducibile alla somma delle sue “parti”, e proprio questo tutto unitario dovrebbe partecipare in modo pieno, consapevole e attivo alla liturgia! E in questo è proprio la musica sacra in senso stretto (quella che è parte integrante della liturgia cattolica perché da essa nasce, in essa si sviluppa e soltanto ad essa è asservita) il linguaggio universale che colpisce e rapisce l’uomo nell’interezza delle sue facoltà! Se togli questo, se togli l’esperienza totalizzante che ne deriva, la partecipazione dei fedeli sarà parziale, marginale, coinvolgerai parzialmente i sensi, favorirai la comprensione razionale delle parole cantate e delle risposte, ma il silenzio, la concentrazione, la preghiera dell’intimo del cuore, l’ascolto profondo, la comprensione intuitiva e totalizzante del mistero a cui per grazia si sta partecipando, tutto questo e altro ancora non favorirai, anzi, ostacolerai. E questo è grave.

Il CVII quindi non ha difeso repertori del passato che sarebbero dovuti rimanere immutabili e indiscutibili per poter celebrare con lo stesso senso di dignità e bellezza. È stato fatto un aggiornamento inadeguato?

Il CVII ha indicato la strada, e non era una strada in se stessa sbagliata. Il problema è tutto nelle interpretazioni che si sono susseguite a partire dal post-concilio. Il Vaticano II va letto e riletto, oggi, senza stare a fare dietrologie o cercare i colpevoli, va letto e riletto in continuità con tutto ciò che l’ha preceduto; ogni Costituzione e Dichiarazione va studiata e ri-studiata sia alla luce di ciò che nei fatti è successo fino ad oggi, sia alla luce delle istanze reali che hanno guidato i padri conciliari e di ciò che effettivamente loro, in quell’epoca, hanno voluto dire. E’ una questione di ermeneutica e, oggi, mi permetto di dire che è anche una questione di giustizia: va restituita ai padri conciliari l’interpretazione più veritiera possibile di ciò che lo Spirito Santo e loro hanno voluto consegnare alla Chiesa Cattolica e al mondo attraverso il Concilio Vaticano II. Vanno contrastate e pian piano eliminate le storture. L’ermeneutica della rottura col passato è una stortura, l’ermeneutica che ha portato all’abbandono e al confinamento nei “musei” del patrimonio inestimabile della musica sacra del cristianesimo occidentale è una stortura, E’ un lavoro immenso ma con l’aiuto di Dio va fatto.

Benedetto XVI come lei ha riportato nella sua opera descrive i canti dei laici come autocelebrativi e autorappresentativi. Cosa ha voluto dire esattamente? Forse l’uomo si è messo al centro della liturgia mettendo all’angolo Dio? Penso al Tabernacolo che non è più al centro dell’altare tanto per fare una similitudine

Benedetto XVI non parla di canti dei laici ma di canti del “gruppo di fedeli”, che idealmente viene anteposto alla Chiesa (“dove due o tre…io sono in mezzo a loro” Mt 18, 20), la quale è vista come istituzione negatrice della libertà e dell’autonomia dei fedeli. Questo gruppo autonomamente si ipostatizza, si chiude in se stesso e pretende di “fare da sè” la liturgia e, quindi, anche il canto liturgico. I nuovi “canti di chiesa” nascono dunque da questo gruppo inteso come comunità sociologica, in cui tutti si conoscono e si interpellano a vicenda e danno vita ai propri canti, che rispecchiano la fede e la spiritualità del gruppo, ma che hanno perso la cattolicità. Questi canti sono il frutto di un tipo di creatività artistico-musicale che si svincola dalla contemplazione della bellezza di Dio e dalla risposta che lo Spirito Santo esprime attraverso il talento e la maestria dell’artista/del musicista, una creatività del tutto autoreferenziale e schiacciata sull’umano, che risponde ai gusti del gruppo di fedeli geograficamente e sociologicamente circoscritto, ma si sgancia inesorabilmente dalle tre dimensioni fondamentali della liturgia indicate da Ratzinger: la storia (continuità col passato), il cosmo (la portata cosmica della redenzione operata da Cristo e il carattere cosmico di ogni liturgia), il mistero (Dio che agisce per primo nella storia e chiama l’uomo a rispondergli). L’uomo si mette al centro, il gruppo si ipostatizza e si autocelebra, quindi non celebra nulla, perché se Dio non è al centro di tutto, anche l’uomo scompare a se stesso.

Lei ha partecipato al coro della Schola Cantorum S.Cecilia di Monopoli. È possibile provare a riportare il repertorio gregoriano in qualche modo nel Novus Ordo Missae?

È certamente possibile e auspicabile, in qualche modo; magari non nella sua interezza, ma gradualmente si può. Serve soprattutto buona volontà e serve partire dai bambini, dai piccoli nella fede, che andrebbero educati pian piano a gustare le altezze musicali del patrimonio di musica sacra che anche a loro appartiene e che nessuno ha il diritto di negare loro. Invece dell’”alleluia delle lampadine” con tanto di gesti, andrebbe insegnato loro l’alleluia pasquale, che tutti cantano (e trascinano) e di cui nessuno conosce la provenienza. Spero di aver reso l’idea.

Lei mette quasi sullo stesso piano il canto della sinagoga e il canto gregoriano. Quali le affinita’?

Innanzitutto c’è una vicinanza storica, nel senso che le prime comunità cristiane fecero propri i canti della Sinagoga, il Salterio quindi, interpretandoli in chiave cristologia e poi, per marcare la differenza col giudaismo, presero le distanze per molto tempo dalla musica strumentale del Tempio giudaico. Infatti nei primi secoli del cristianesimo la liturgia era accompagnata da canti senza musica, come avveniva nella Sinagoga, poiché la musica strumentale era considerata retaggio del giudaismo e anche concessione alla sensualità, in una visione dualistica della persona figlia del platonismo, ancora presente fino a san Tommaso D’Aquino e che nei secoli con fatica è stata superata. Poi c’è una vicinanza stilistica: il canto della Sinagoga è un canto a servizio del testo, le parole e la Parola di Dio sono sempre al primo posto, la musica è in funzione di essa. Questo è senz’altro vero anche nel canto gregoriano e nella polifonia cattolica, anche dopo l’introduzione dell’accompagnamento dell’organo a canne: le parole della liturgia sono al primo posto, il testo da cantare è un testo da servire e la musica è a servizio di esso. Tutta la musica sacra anche nuova, (perchè guai a pensare che non si possa progredire rettamente con nuove composizioni!), per essere adatta alla liturgia deve seguire questo fondamentale assunto che viene da molto lontano.

Bene diceva San Pio X: “La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità. Deve esser, santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in sé medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori”. Il carattere dell’universalità che unisce tutti i popoli di qualsiasi cultura e provenienza, così come, ma questo è un altro discorso, l’uso (abolito quasi del tutto) del latino (lingua ufficiale della Chiesa universale). Vuol fare un commento?

Questa domanda mi permette di fare riferimento al titolo del mio libro, “Senza Bellezza non possiamo vivere”: la bellezza della liturgia è la bellezza che viene da Dio, proprio come la santità dell’uomo è la santità di Dio (il solo che è Santo!), che all’uomo indegno viene comunicata in Cristo attraverso l’azione santificatrice dello Spirito. Ecco perché Bellezza con la maiuscola: Tu sei Bellezza, diceva san Francesco d’Assisi al Dio Altissimo! Solo da questa bellezza, da Dio, derivano la bellezza della persona umana e la bellezza dell’arte che l’uomo è in grado di produrre. E la musica e l’arte se sono informate di questa bellezza santificatrice diventano linguaggio universale, in grado di parlare di Dio a chiunque, agli uomini, alle donne e ai bambini di ogni luogo e di ogni tempo. Più l’uomo si lascia informare da Dio e si trascende, più universale diventerà la sua creazione artistica, a prescindere dalla comprensibilità razionale della lingua utilizzata per esprimerla. Nessuno di noi, penso, non riesce a fruire della bellezza di un’icona bizantina solo perchè le scritte sono in greco o in russo o in slavo antico!

La musica è anche strumento di santificazione nelle sue forme artistico-rituali di coloro che partecipano alle celebrazioni. Ricollegandomi alla domanda precedente vorrei aggiungere che sono i popoli di diversa cultura che devono essere subordinati al carattere sacro della musica ecclesiale e non viceversa. La liturgia non è uno spettacolo o un momento d’incontro con differenti culture, ma un centro di unità affinché ad unisono sia data lode e gloria a Dio. Tenendo fisso lo sguardo alla Sacra Scrittura e alle fonti liturgiche (alla Tradizione della Chiesa) potremo essere degni di cantare a Colui che è la fonte di ogni bellezza. È possibile ritornare alle origini nel contesto in cui viviamo?

Del tutto condivisibile ciò che è affermato nel corpo della domanda, l’inculturazione è sempre una questione di delicati equilibri: il dettato delle diverse culture non va a priori escluso dalla liturgia, ma nemmeno può essere accolto tal quale e universalizzato! Come la Chiesa delle origini si è ben guardata dall’ introdurre le musiche rituali dei pagani nella liturgia cristiana, perché ritenute assolutamente inadatte, e si è concentrata per molto tempo sullo stile celebrativo della Sinagoga, così anche oggi la musica dei popoli va prima studiata, poi purificata e poi eventualmente accolta e concessa laddove essa è di casa. Laddove essa è di casa, non nelle basiliche romane per “fare qualcosa di diverso”, “far sentire a casa loro gli immigrati” e chi più ne ha più ne metta.  Se vuoi accogliere il diverso, rendilo in grado di partecipare alla bellezza che viene da Dio, aprigli le porte di casa tua e invitalo a condividere i tuoi tesori! Ti ringrazierà.

Cinzia Notaro