Un quartetto di poeti per l’estate

«Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento palladio trasvolare
senza suono.
 Più lunghi nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si tolse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.»

Gabriele D’Annunzio dedicò all’estate, intesa come esplosione di vita che fluisce, come abbandono e immersione nella natura vivente, un intero libro, l’Alcyone, pubblicato nel 1903, che può considerarsi una sorta di diario poetico di una lunga estate marina trascorsa in Versilia in compagnia della donna amata. 

Nella poesia sopra riportata, composta di tre strofe di endecasillabi con assonanze irregolari e intitolata Stabat nuda Aestas, l’estate viene personificata ed appare al poeta come una donna sensuale che corre nuda tra le pinete e il mare per perdersi completamente nella immensità delle natura, tra «le sabbie e l’acque». 

Il titolo è tratto da un emistichio di un verso delle Metamorfosi di Ovidio: «Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat» (Stava nuda l’estate e portava ghirlande di spighe). Ma alla staticità del verso di Ovidio in D’Annunzio subentra una rappresentazione mossa e dinamica:  l’estate appare al poeta come una donna «sfuggente e misteriosa» che «continuamente trascolora negli aspetti delle cose della natura… fino a che vi si dissolve totalmente, rifluendo nella nudità del paesaggio» (Federico Roncoroni). Si può parlare, non a torto, a questo proposito di una  comunione «mistico sensuale con la natura». 

È questa, insieme a La pioggia nel pineto, a Meriggio, a La sera fiesolana, a I pastori, una delle grandi poesie che fanno dell’Alcyone un capolavoro della poesia di tutti i tempi. 

D’Annunzio fu l’ultimo cantore d’una felice adesione alla vita, prima della grande crisi che di lì a poco avrebbe investito uomini e scrittori del XX secolo.

* * *

«Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
 

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.»

Una condizione esistenziale di sradicamento, di crescente disagio, di mancanza di certezze caratterizza l’uomo del ‘900. Esemplari, per meglio cogliere il mutamento avvenuto nella cultura europea a partire dalla prima guerra mondiale, sono i versi di Meriggiare pallido e assorto, che nel 1916 il giovane Eugenio Montale dedicò all’estate, poi confluiti nella raccolta Ossi di seppia (1925).

Montale esprime il proprio stupore di fronte ad un universo incomprensibile, anche se, nell’assenza di un senso, di una verità gratificante, sembra emergere l’attesa di qualche cosa, di un miracolo, che possa rivelare un varco, il punto debole del meccanismo. Gli ossi sono relitti, abbandonati dal mare durante la risacca. E’ evidente il valore simbolico delle cose, come pure del paesaggio, che è quello della natia Liguria, arido, secco, bruciato dal sole, ma vivificato dal mare.

L’estate di Montale, al contrario di quella dannunziana, non è segnata dalla pienezza dei sensi e dall’eros, ma da una riflessione dolorosa sulla vita e sull’impossibilità di superare i limiti (i cocci di bottiglia). Non a torto Guido Ceronetti nei suoi Pensieri del tè osservava che «Montale non emana calore, non è erotico, è una grande, lucida, non ustoria lente». E i suoni duri e secchi dei versi rappresentano l’espressione fonica della condizione umana e della difficoltà di vivere.  

* * *

«Distesa estate
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore
ci si risveglia come in un acquario
dei giorni identici, astrali
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi
felicità degli spazi
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca
stagione estrema,che cadi
prostrata in riposi enormi
dai oro ai più vasti sogni
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.»

Alla ricercata musicalità dei versi di D’Annunzio e alla voluta asprezza dei versi di Montale si contrappone la composta naturalezza dei versi di Vincenzo Cardarelli. I suoi testi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958 hanno forma piana, discorsiva, uniscono liricità e meditazione sulla scorta dell’amato Leopardi, alla cui perfezione stilistica il poeta di Tarquinia si rifà. I temi ricorrenti nelle sue liriche sono l’avvicendarsi delle stagioni descritte nella loro cosmica fisicità, lo scorrere del tempo, la mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, il vagheggiamento dell’infanzia e del paese natio. 

Anche in Cardarelli, come già in D’Annunzio, si avverte fortemente l’eco della filosofia poetica di Nietzsche. Ma se D’Annunzio coglieva del filosofo tedesco la nozione di superuomo, Cardarelli si rifaceva piuttosto alla suggestione  dell’eterno ritorno.

Il paesaggio estivo viene descritto dal poeta nell’ora del meriggio, che per i Greci antichi simboleggiava, per il senso di sospensione della vita che ad esso si accompagna, la pienezza misteriosa dell’essere. «Non è forse perfetto il mondo in questo momento?» si chiedeva il filosofo dell’eterno ritorno nel capitolo dedicato al meriggio della IV parte del Così parlò Zarathustra. E proseguiva: «questa è l’ora segreta e solenne, in cui nessun pastore  suona il flauto» e in cui «ride un Dio».

Il momento della pienezza coincide col momento della perfezione del mondo e sembra rimandare ad una «spiritualità sovratemporale» (Sossio Giametta), che, a ben vedere, non è altro che la beatitudine di cui ci parlano il cristianesimo e le altre religioni.

Dietro la «distesa estate» del poeta si intravede l’inesausta aspirazione dell’uomo alla felicità.

* * *

«Estate tu non declinare.

Resta come sei, maestosa

e oppressiva, tu tiranna

di terraferma.

Porta le meduse sin

sulla sabbia.

Sei tu che hai bordato la rosa

di troppa luce, e pian piano

l’hai disfatta

e tu che alle vigne prometti

il vino lento e dolce.

Mi stendo nelle tue bonacce.

Non declinare. Resta

come sei, nuda e

sola. Amare non è più

necessario.

Tu conosci l’immobilità del piacere.

Porta le meduse sin

sulla sabbia., 

decapita i giunchi, incendia 

i ginepri. La costa tutte le sere

è come una carcassa bianca.

Sei tu che sospendi nubi

aride sopra le pianure e i carrubi

solitari, sopra le foreste

e le isole

assetate.

Mi stendo nelle tue asciutte

tempeste.»

Spigolando tra le varie poesie dedicate all’estate presenti nella raccolta Le stagioni (1998) del poeta Giuseppe Conte, ci soffermiamo su questa intitolata Poseidone.

Anche il poeta ligure personifica l’estate e si rivolge a lei confidenzialmente con un tu, ma, a differenza di Gabriele D’Annunzio e segnatamente del suo Meriggio, mette in risalto l’ambiguità dell’estate, la sua bellezza e la sua tragicità insieme, la sua pienezza e la sua oppressione, il paradosso di una forza che fa nel contempo sfiorire la rosa e maturare le vigne. 

Conte nei suoi versi allude evidentemente a quel doppio volto della vita – gioia e dolore – investigato dalle filosofie dell’esistenza e plasticamente raffigurato da Nietzsche nella feconda opposizione apollineo-dionisiaco.

Il filosofo dell’eterno ritorno già nella sua prima opera, La nascita della tragedia, aveva infatti osservato che per i Greci antichi «la loro intera esistenza con tutta la sua bellezza e misura era piantata su un fondo nascosto di dolore e di conoscenza che lo spirito dionisiaco rimetteva in mostra». E a lui faceva eco il romanziere e filosofo esistenzialista Albert Camus che in Estate, una raccolta di brevi saggi scritti tra il 1939 e il 1953, scriveva: «Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente». 

La poesia di Conte si nutre di questo pensiero classico e mitico che, a buon diritto, possiamo definire mediterraneo.

Sandro Marano

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