Un organista teologo legge la lettera apostolica Desiderio Desideravi

Quando studiamo i Padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici, sappiamo che esiste un vecchio adagio che, più o meno ovunque, recita così: “in essi troviamo tante pagliuzze d’oro e tante pagliuzze di fieno”. Cosa vuol dire? Se in questi uomini cerchiamo l’impronta della fragilità umana – che comporta l’errore esegetico, il travisare un dato storico, l’esprimere un’opinione netta che poi nello scorrere del tempo si rivela erronea – allora troveremo senz’altro tanto fieno: neanche i papi, santi o meno, viventi o già tornati alla Casa del Padre, sono mai stati esenti da questa forbice, che si abbatte impietosa su tutto e tutti.

Se invece in quegli stessi uomini cerchiamo la presenza di Cristo, il Suo insegnamento, la trasmissione del Vangelo e delle verità di fede, al di là degli accidenti e delle immanenze proprie della carne che vive la storia presente o che ha vissuto la storia passata, allora con l’aiuto della grazia che proviene dal Paràclito, troveremo anche quell’oro di cui tanto la nostra vita spirituale ha bisogno.

La lettera apostolica Desiderio Desideravi non è affatto mostrata esente dalla mannaia che anzi è già calata impietosa su di essa: tanti articoli ed interventi, con intento apologetico (più o meno libero o più o meno ideologico) hanno messo in luce le pagliuzze di fieno che, secondo il pensiero dei singoli studiosi, in essa sono contenute. Cito dunque le principali opinioni e tesi contrarie, a titolo di onestà intellettuale e completezza di disamina.

Il testo propone la liturgia come antidoto al veleno della mondanità spirituale (nn. 17 e ss.), che si esprime nel neo-gnosticismo e neo-pelagianesimo, già comparsi nella Gaudete et exsultate (nn. 74 e ss.), e da intendersi, l’uno come riduzione dell’esperienza della fede a ideologia intellettualizzata, l’altro come modalità per ottenere i frutti della fede basandosi solo sulla propria volontà, i propri sforzi, le proprie rigidità in merito ai precetti morali. Ancora, la lettera insiste sul fatto che l’adesione autentica all’essenza del Concilio Vaticano II comporta necessariamente l’accogliere «la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium» e per questo il papa, nel precedente Motu Proprio Traditionis Custodes (art. 1) ha sentito la necessità di affermare che «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano». Infine, si affronta la tematica dell’ars celebrandi (n° 54), individuando gli atteggiamenti estremi del soggettivismo celebrativo: «rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica», concludendo come l’inadeguatezza di questi modelli presidenziali «abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo».

Gli studiosi ed articolisti che hanno voluto “cercare la paglia di fieno”, ritengono di aver avuto terreno fertile nelle loro argomentazioni.

Neo-pelagiani e neo-gnostici? Va bene; che dire però dell’ideologia modernista ed antropocentrica, che appiattisce tutto sulla dimensione orizzontale, annacquando fin quasi alla dissoluzione la verticalità dell’esperienza della fede e proponendo di fatto un modello di vita cristiana dove il fare è preminente sul credere, sul pregare, sull’aderire a Cristo con tutto il cuore e sul cercare prima di tutto il Regno di Dio e la Sua giustizia, poiché il resto (compreso il giusto bene fattivo nei confronti del fratello bisognoso) viene dato da Dio stesso in aggiunta (cfr. Mt 6, 33)? L’adesione al Vaticano II passa necessariamente per l’accoglienza della riforma liturgica nata dalla costituzione Sacrosanctum Concilium? Benissimo; peccato che il messale e i libri liturgici usciti dall’assise conciliare fossero quelli promulgati nel 1965, non certo i libri successivi che sono il frutto di un cammino travagliato, combattuto, caratterizzato da asprezze e controversie dove tutti erano contro tutti ed il Consilium guidato dal vescovo Annibale Bugnini pareva fare la guerra fredda alla Congregazione dei Riti, oltre ai grandi pilastri della tradizione quali erano i cardinali Bacci, Siri ed Ottaviani, che avversarono e confutarono sempre l’operato del Consilium.

Il problema centrale, poi, sarebbe l’ecclesiologia: quale ecclesiologia? Forse quella così tanto visceralmente propugnata dal Papa, a braccio, nel discorso al clero siciliano del 17 giugno 2022, dove, inalberandosi contro certa moda liturgica, ha affermato: «Carissimi, ancora i merletti, le monete…, ma dove siamo? Sessant’anni dopo il Concilio! Un po’ di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella ‘moda’ liturgica! Sì, a volte portare qualche merletto della nonna va, ma a volte. È per fare un omaggio alla nonna, no? Avete capito? È bello fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, la santa madre Chiesa, e come la madre Chiesa vuole essere celebrata». Dunque, l’atto liturgico celebrerebbe la madre, cioè la Chiesa? Ma la Chiesa è il soggetto celebrante, non certo quello celebrato, in quanto il soggetto celebrato è (e non può essere nessun altro che) il Dio Trino e Uno: di quale ecclesiologia si va parlando, allora? Di quella antropocentrica, dove, per l’ennesima volta, la dimensione orizzontale è talmente esasperata da rendere culto all’uomo, anziché a Dio? Qui sì, che si scadrebbe in un neo-pelagianesimo dove l’uomo incentra tutto su se stesso, anziché sull’amore gratuito del Salvatore Crocifisso!

Infine il problema delle varie forme di protagonismo: benissimo intervenire sui tanti abusi nel presiedere l’assemblea liturgica, certo; per far questo, quindi, la priorità era estirpare il Rito della Messa secondo i libri liturgici del 1962 e resi liberamente utilizzabili dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, ovvero proprio quel rito in cui il personalismo del sacerdote è reso di fatto impossibile dalle norme liturgiche stringenti, dalla lingua latina che non permette voli acrobatici di fantasia creativa, dalla postura rivolta alla croce anziché ai “riflettori del pubblico”?

Ecco: questa è la paglia che teologi, studiosi ed articolisti, nelle settimane successive all’uscita della lettera apostolica Desiderio Desideravi, hanno inteso scovare. A loro e alle relative confutazioni storiche, antropologiche, filosofiche e teologiche di esperti di ben altro spessore lascio umilmente, non carta bianca, ma l’intero mazzo di carte, perché nella Chiesa non tutti devono fare tutto, ma tutti hanno un ministero da svolgere: il mio è appunto quello di musicista sacro e di catecheta in favore dei membri del Popolo Santo di Dio, in collaborazione attiva coi sacri ministri che scelgono di avvalersi del mio servizio.

Personalmente, quindi, ho optato piuttosto per invocare lo Spirito Consolatore e cercare l’oro, col proposito di proseguire ancora il mio cammino di vita ecclesiale cum Petro et sub Petro, certamente cum grano salis, senza alcun annullamento pedissequo della ragione e della volontà.

La lettera apostolica di Papa Francesco ci propone di guardare la liturgia, dimensione fondamentale per la vita della Chiesa (cfr. n. 1) ponendoci nel solco dell’esperienza unica e straordinaria che i commensali dell’Ultima Cena vissero: attraverso i gesti del Signore istituiti in quell’evento, «ci viene data la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi» (n. 2). E’ molto bella l’attenzione posta proprio alle parole del Signore, che dànno appunto il titolo al documento: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22, 15), in quanto «ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal Suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al Suo amore, del volersi lasciare attrarre da Lui» (n. 6).

Seppur priva di velleità dogmatiche tout-court, l’espressione contenuta al punto n. 7 è per me la più felice di tutto il documento: «Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il Suo sacrificio in obbedienza d’amore al Padre. Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della Sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della Sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto». Centro della Messa, dunque, è sempre stato, è e sempre ha da restare il Sacrificio della Croce, senza il quale l’Eucaristia si svuota della sua stessa sostanza: non è solo eucaristizzazione del pane e del vino in Corpo e Sangue del Signore, bensì piena transustanziazione in Corpo donato e Sangue versato. Solo strettamente unita alla Croce, la Messa trova la pienezza del suo essere, la ragione della sua celebrazione, che certamente non si esaurisce nell’ora di tenebre che vuole annientare il Figlio Unigenito appendendolo a quei legni: la luce stessa della risurrezione, il salto ontologico per eccellenza di tutta la storia (cfr. Benedetto XVI, Gesù di Nazarteh, Vol. II, LEV, 2011, pp. 302 – 307), illumina tanto l’evento della croce quanto i gesti e le parole compiuti e pronunciati su ogni altare in ogni chiesa del mondo. Giustamente il Papa continua: «Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti» (n. 9). La liturgia permette a ciascuno di noi e al “noi” della vita ecclesiale autentica (cfr. n. 19) di poter incontrare, ascoltare e ricevere il Figlio Unigenito immolato e risorto, in modo tale che, insieme all’Apostolo, ognuno di noi con stupore e piena letizia, possa esclamare nella commozione di tale abisso d’amore: «Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).

Come vediamo, solo attraverso le chiavi della corretta ermeneutica, quella della continuità, possiamo vedere affiorare l’oro presente in questo documento, tante pagliuzze che nulla aggiungono, certamente, ma neppure tolgono a quanto da sempre la tradizione intende trasmettere nella fedeltà al suo Signore. Di certo, da alcuni viene criticata proprio quest’ermeneutica, in quanto considerata pensiero teologicamente debole. Mi viene da sorridere, quindi, pensando per conseguenza che dunque sarebbe debole anche il pensiero di Benedetto XVI, quando, nel suo storico e magistrale discorso d’intervento coi parroci e il clero di Roma, il 14 febbraio 2013, in virtù del suo aver partecipato all’assise conciliare come teologo, spiegò tramite le due immagini del “Concilio dei media” e del “Concilio dei Padri” appunto la differenza tra le due ermeneutiche: la prima, quella della rottura, propagandata dai media, che sull’onda della grande contestazione appena iniziata, gridava il suo desiderio malsano di iconoclasi circa tutto ciò che era stato (“roba vecchia”, insomma) per lasciare campo libero al nuovo cammino della storia del presente; la seconda, quella ben presente nelle intenzioni e nella lettera dei documenti promulgati dai padri conciliari in comunione con il Papa, fu ed è il vero spirito del concilio, quello della prudente e saggia innovazione in piena continuità con la tradizione: un aspetto, questo, che qualunque studioso di storia della Chiesa e della Sacra Liturgia può constatare come linea rossa costante in duemila anni, seppur comprensibilmente declinata a seconda del paradigma ecclesiale che, di volta in volta, le epoche storiche chiedevano di incarnare all’umanità cattolica.

Il punto essenziale, che deve stare sommamente a cuore a noi musicisti, artisti, insegnanti e laici impegnati d’ogni genere e carisma, è proprio questo: si può forse realmente innovare con saggezza e prudenza, se non si conosce e si custodisce con fedeltà e gratitudine, ma anzi si accantona e si dimentica tutto il cammino di due millenni di vita cristiana, fatti di bellezza, di lacrime di penitenza, di slanci di santità, di doni di grazia dello Spirito? Mi viene proprio da pensare che, quanto chi nega e teme ogni prudente e saggia innovazione, tanto chi nega il valore imprescindibile del passato, è perpetuatore dell’ermeneutica della rottura allo stesso modo, seppur partendo da presupposti diversi: il risultato è il medesimo, ovvero il ripiegamento nelle proprie paure e la chiusura ad ogni possibile spiraglio di autocritica serena e salutare per correggere il tiro e rimettere la nave della cristianità cattolica sulla giusta rotta; altrimenti, o che la nave resti alla fonda senza salpare, o che pretenda incoscientemente di navigare nell’ebbrezza di un entusiasmo sconsiderato ed imprudente senza carte nautiche e necessaria esperienza del mare, non veleggerà mai secondo la volontà di Colui che l’ha posta sulle acque: il Dio Trino ed Uno, che nient’altro desidera per nave ed equipaggio se non la gioia della salvezza eterna nel Suo Regno di Luce infinita (cfr. Preghiera Eucaristica IV, Messale Romano, LEV, Roma 1973).

A noi musicisti, che prestiamo il nostro servizio e viviamo la nostra preghiera attraverso la nostra arte in favore dei fratelli e delle sorelle che stanno con noi presso il medesimo altare, spetta di ben comprendere la parte dove il Papa parla dello stupore per il mistero pasquale (nn. 24 – 26). Il servizio del canto, della musica e dell’organo nell’azione liturgica cos’altro è se non rendere esplicita e manifesta la bellezza della Parola di Dio che si fa nostra preghiera, della presenza di Cristo in quanto oggetto del nostro canto, dell’adesione del cuore all’amore salvifico di Dio che si fa carne, vittima immolata e risurrezione in nostro favore? Ben afferma il Papa: «La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione» (n. 25).

A questo punto, tanto noi artisti quanto voi sacri ministri, dovremmo fare l’unica cosa saggia veramente necessaria: fermarci, prendere in mano la costituzione Sacrosanctum Concilium, sulla quale il Papa pone il fondamento di questa sua lettera e dalla quale non intende evidentemente allontanarsi in virtù dell’ermeneutica della continuità, rileggere bene tutta la costituzione e farci un esame di coscienza circa quanto siamo stati e siamo fedeli alla lettera di questa costituzione.  

Il Papa continua: «Ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l’assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce» (n. 23). I sacri ministri si interroghino, dunque, se essi siano ossequiosi, con l’assenso dell’intelletto e della volontà, circa le norme liturgiche riguardanti il retto modo di celebrare, consapevoli che nessuno, anche se sacerdote, può osare, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (cfr. SC n. 22). A ciascuno di loro, in piena libertà e sincerità di coscienza, spetta rispondere, ognuno a proprio nome e sotto la propria responsabilità davanti a Dio e davanti alla Chiesa, a quanto la costituzione conciliare (e le conseguenti parole del Papa) pongono a quesito.

Dal canto nostro, noi artisti quanto siamo consapevoli che la nostra arte deve essere espressione di una vita cristiana autenticamente vissuta (cfr. SC n. 127)? Noi musicisti siamo consci che ogni protagonismo nella nostra arte va a detrimento stesso del bene dei membri del Popolo di Dio, i quali anzi siamo chiamati a servire per l’innalzamento delle loro menti alle cose celesti attraverso l’organo (cfr. SC n. 120) e gli strumenti legittimamente ammessi, per la promozione del canto assembleare autentico perché le voci dei fedeli risuonino adeguatamente nel culto (cfr. SC n. 128), per la conservazione del Canto Gregoriano e della Polifonia Sacra (cfr. SC. nn. 116-117)?

Sul perché nell’attuale vita ecclesiale si sia giunti ad un simile “deserto della bellezza” musicale ed artistica ho già parlato in altra sede (La musica sacra e “Il dono della vocazione presbiterale”: un’occasione da non sprecare, in “Arte organaria italiana. Fonti, documenti e studi”, XIII / 2021, a c. dell’Associazione culturale “Giuseppe Serassi”, pp. 379 – 394), tentando serenamente di analizzare le problematiche storiche ed umane che hanno portato alla situazione che viviamo ai giorni nostri, compresa la drammaticità di una mancanza di adeguata retribuzione nei confronti di artisti e musicisti liturgici.

Appellandomi – oggi in questa sede, così come feci allora – a quel senso missionario di testimonianza autentica che dovrebbe essere una vera urgenza per ogni battezzato e cresimato, desidero avviarmi verso la conclusione con qualche piccolo spunto pratico, in materia di musica liturgica.

Ai nn. 44 e ss., il Papa cita ampiamente Romano Guardini, a proposito di come l’uomo moderno non sia più capace di simboli e debba dunque ricomprenderne il linguaggio per poterli vivere nella loro autenticità. Se è urgente più che mai una vera catechesi liturgica, non è meno necessaria una profonda catechesi musicale, che attraverso i tesori della Scrittura, dei Padri e dell’arte dei compositori stessi, possa diventare di nuovo “nostra preghiera”, tanto nella partecipazione al canto, quanto nella partecipazione interiore attraverso l’ascolto contemplativo: questa è la vera actuosa participatio, ossia quando tutto il nostro essere aderisce a Dio con un volontario e libero assenso d’amore. Si tratta, però, di un percorso graduale, che deve essere animato dallo stesso paterno buon senso che ebbe l’Apostolo nella sua predicazione: «Sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali» (1 Cor 3, 1-3); riferendoci alla musica, dobbiamo riconoscere con obiettività che la gente non è più abituata ad ascoltare, pur avendo inconsciamente un enorme bisogno di udire bellezza che nutra mente e cuore in modo solido, e non con evanescente “liquidità emotiva”, che lascia sempre il tempo che trova e non fortifica né nella fede né in vista di un’umanità matura. La durata media di una canzone di un cantautore o di un qualsiasi singolo composto in qualsiasi stile o genere, di norma, non supera oggi i 4 minuti; in un mondo come il nostro, dove siamo costantemente bombardati da immagini, rimpinzati di suoni e portati agli estremi limiti della frenesia della vita, il musicista liturgico, esecutore o compositore, sa che quel che intende proporre all’assemblea non può superare i 5 minuti durante l’atto liturgico, per non causare una vera e propria “audio-indigestione” in tutti coloro che, nei confronti della musica, oggi, sono appena “bambini da latte”. La Sacrosanctum Concilium in proposito offre una linea-guida quanto mai attuale: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (n. 34). Attenendoci alla norma aurea della nobile semplicità, prediligiamo dunque canti assembleari idonei ad essere appresi il più agilmente possibile, con linee melodiche limpide e con testi di solido contenuto spirituale e teologico; nella scelta della polifonia, si opti per pagine di limitata durata e di più facile fruizione; il canto gregoriano venga senz’altro prediletto e riproposto con quella gradualità che permetta la comprensione del suo purissimo valore, iniziando dalle missae più semplici e dagli inni ed antifone più diffusi, per poi gradualmente incrementare il repertorio della comunità celebrante.

L’organo, infine, costituisce una ricchezza del tutto particolare, che deve tornare ad essere patrimonio condiviso della Chiesa latina. Prima di tutto noi organisti dobbiamo urgentemente ricomprendere quello che esprime l’eucologia di benedizione dell’organo, nel Benedizionale Romano (n. 1491): tramite gli accordi su di esso formulati, la nostra liturgia terrena si unisce alla Liturgia Celeste. L’organo è quindi un sacramentale che ha il compito di raffigurare iconicamente in terra la partecipazione comunionale della Chiesa del Cielo alla Chiesa ancora pellegrina; talmente chiaro è il suo compito iconico di ripresentare alla nostra mente e alla nostra anima la parola ed il volto stesso di Cristo che, esattamente come accade per le immagini del Signore, anziché venire asperso con l’acqua benedetta, è indicato che l’organo venga incensato (n. 1492), in quanto l’incenso è il segno sia della presenza stessa di Dio che della preghiera di adorazione ed amore ardente del Popolo verso il Dio Trino e Uno. Che proponga pagine di letteratura o accompagni semplicemente i canti, il significato mistagogico è sempre lo stesso: icona del Cielo che si china sulla terra, del Cristo Signore che con amore sorregge, sostiene, consola e cammina con noi. In virtù di tanta ricchezza posta nelle mani dell’organista, egli ha da ricomprendere se stesso come “ministro della bellezza” attraverso un triplice compito: 1) l’accompagnamento del canto; 2) il sostegno all’orazione mentale tramite pagine idonee per linguaggio musicale e per durata, soprattutto nel preludiare la celebrazione eucaristica, commentare il sacro silenzio del ringraziamento nel post-communio e concludere l’atto liturgico esprimendo la letizia di essere membra vive del corpo di Cristo Risorto; 3) la predisposizione della catechesi musicale. Quest’ultimo punto è una frontiera da esplorare con creatività e fantasia. Perché non predisporre brani contemplativi (quali le Toccate per l’Elevazione o Preludi Corali idonei) durante momenti di adorazione eucaristica? Perché non impostare incontri di catechesi per giovani e adulti avvalendosi di singole pagine di letteratura per penetrare meglio un tempo liturgico, un tema biblico, un argomento eucologico, un aspetto della vita umana? Ad esempio, se come organisti dovessimo offrire uno spunto catechetico sulla Pentecoste, l’analisi della simbologia musicale del Chorale Komm, Gott Schöpfer, heiliger Geist BWV 667 sarebbe l’ideale: è sufficiente mostrare, in modo piano e comprensibile, come Bach descriva musicalmente l’evento dell’effusione dello Spirito, tratteggiando il tuono, il vento e il fuoco, mentre – ora al soprano, ora al pedale – scorrono le note dell’inno Veni creator Spiritus. Mi si dirà: “I sacerdoti non ci considerano, i catechisti non ci coinvolgono, ai giovani non interessa!”. Replico prontamente che oggi esiste internet, dove la realtà social permette un ampio spettro di divulgazione in qualunque forma si voglia, con una facilità enorme nel raggiungere proprio i giovani e i giovanissimi; va solo trovato il linguaggio giusto, insieme a tanta carità e pazienza, riscoprendo soprattutto il senso di paternità e fraternità proprio di chi ha realmente la vocazione di maestro di fede e di autentica sapienza in favore dei ragazzi. Forse, anziché riempire il web di soli video dove ci piace far vedere mani che corrono sui manuali e piedi che ballano sulla pedaliera (nulla di male, ai fini didattici; discutibili, quando si esauriscono nell’autoreferenzialità), dovremmo piuttosto mostrare con affabilità ed autentica convinzione cristiana il valore immenso di quella musica che amiamo, soprattutto nell’ottica della nuova evangelizzazione dell’Occidente. Lo ripeto: nobile semplicità, capacità di tastare il polso dell’assemblea nella scelta delle musiche, fantasia e creatività paterna e fraterna nel creare occasioni ad hoc per porgere “missionariamente” al prossimo il dono della musica sacra. Prima di tutto, però, affinché queste tante pagliuzze d’oro possano essere scovate, noi per primi abbiamo qualcosa da fare: metterci in ginocchio e, con sincerità di cuore, rivolgerci al Paràclito perché ci ispiri e ci sorregga!

Alessio Cervelli