L’icona: raffigurazione dell’invisibile

La tradizione di raffigurare in immagini visive il divino affonda le sue radici in tempi molto remoti. L’uomo ha sempre sentito la necessità di creare immagini di tutto ciò che si pone nel mistero del Mondo invisibile, per via della propria limitazione naturale.

Se lo Spirito è presente dappertutto, l’uomo sa che il suo essere finito è delimitato dallo spazio che il Suo corpo occupa e dal tempo breve della sua esistenza terrena. L’immagine iconica ha avuto quindi la funzione di delimitare ciò che è al di là di ogni confine spazio-temporale; l’uomo, difatti, ha sentito sempre il bisogno di intessere un rapporto di tipo personale con ciò che lo trascende, per non cadere nella possibile confusione derivante da una concezione astratta del divino.

Certamente tale tendenza dell’uomo può sfociare, come spesso è accaduto nella storia, nell’idolatria e nel feticismo, ma ciò riguarda una situazione in cui un popolo si è degenerato, o per intima debolezza, o perché si è staccato dal tronco principale della Tradizione primordiale, da cui nei millenni, sono derivate le tradizioni spirituali dei vari popoli.

Nell’antica religione ebraica vi era la proibizione di raffigurare il divino in immagini terrestri, perché si riteneva che l’immagine di Dio nell’uomo, così come viene narrato nel Genesi, fosse rimasta mutila in conseguenza del peccato di Adamo. Però non tutte le immagini erano proibite; difatti nell’Esodo, in relazione alle istruzioni che Dio dà per la costruzione dell’Arca dell’Alleanza, viene detto: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati al martello” (Es.20,3-4).
La possibilità di raffigurare gli Spiriti celesti, così come anche si evince dalla grande ierofania del “carro del Signore” del profeta Ezechiele (Ez.1,1-28) viene giustificata dal fatto che tali Spiriti sono rimasti fedeli al Signore e quindi non soffrono della separazione da Lui, come nel caso di Adamo che ha disobbedito al comando divino.
Il profeta Daniele, però, si spinge più in avanti quando raffigura in forma umana, sia pure in modo molto fantastico, la manifestazione del Figlio dell’uomo, che in seguito sarà ripresa da s.Giovanni nell’Apocalisse (Dan.7,14-28).

Presso i Greci antichi si riteneva che certe statue, come quella di Atena, fossero state fatte non da mano d’uomo, ma che fossero scese dal cielo; anche se parecchi filosofi come Eraclito, Empedocle e Platone, criticavano tale tendenza all’idolatria, pur comprendendo che il popolo ha bisogno di tali raffigurazioni del divino.
Anche nell’Islam, così rigoroso nella proibizione delle immagini sacre, vengono ammessi simboli geometrici e la stessa pietra nera, la Kaaba, che si dice essere scesa dal cielo e viene venerata alla Mecca dai pii musulmani, che hanno l’obbligo di farvi colà un pellegrinaggio almeno una volta nella vita, sono pur sempre immagini visibili dell’invisibile, necessarie per il culto del popolo.

La tradizione dell’Icona bizantina deriva in parte dalla precedente tradizione romana e in parte da influenze orientali. La raffigurazione di Cristo, della Madre di Dio e dei Santi viene accettata in base alla dottrina evangelica che afferma “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (prologo del vangelo di s. Giovanni).
Fin dai primi secoli del Cristianesimo le Icone sono oggetto di culto. Esse devono però rispondere a precisi riferimenti simbolici affinché il fedele possa essere trasportato in una visione del mondo invisibile. Difatti, il fondo dell’Icona deve essere dorato, in quanto l’oro è simbolo dell’Eternità e della regalità divina; la veste del Cristo deve essere di colore rosso, che indica la sua umanità, mentre il mantello di colore azzurro,indicante la Sua divinità e così via.
Ma tra il VII e l’VIII sec.d.C., si sviluppa a Bisanzio un movimento teologico avverso alla produzione delle immagini sacre: l’iconoclastia. Gli iconoclasti partono da un passo della lettera di s. Giovanni nel quale si afferma: “nessuno ha mai visto Dio”. (1Giov.4,12); ma ancora di più da vari passi dell’Antico Testamento e in particolare da un passo dell’Esodo in cui si afferma: “…non ti farai idolo, né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto terra, non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai” (Es.20,4-5).

Di contro a tale dottrina vari Padri della Chiesa greca affermeranno che la proibizione di costruire immagini sacre, con il relativo culto attribuito ad esse, è stata annullata dalla Incarnazione del Verbo. Così si esprime s. Giovanni Damasceno: “un tempo Dio, non avendo corpo né forma, non si poteva rappresentare in alcun modo. Ma poiché ora Dio è apparso nella carne ed è vissuto tra gli uomini, posso rappresentare ciò che è visibile in Dio. Non venero la materia, ma il Creatore della materia, che per me si è fatto materia, che ha assunto la vita nella materia e che per mezzo della materia ha realizzato la mia salvezza” (PG 94,1245).
Quindi la venerazione di una Icona non si rivolge ad una immagine in se e per se, ma a Colui che viene rappresentato nell’immagine, ma, sempre secondo s. Giovanni Damasceno, l’Icona è come riempita di energia e di grazia.

In modo alquanto differente, s. Teodoro Studita mette l’accento sul modo di presenza del Cristo nell’Icona. Egli afferma che l’Icona non è un sacramento come l’Eucarestia, attraverso il quale il fedele partecipa in modo sostanziale al corpo e al sangue di Gesù Cristo, ma essa serve come un supporto per una partecipazione intenzionale al Salvatore, come pure alla Vergine e ai Santi.
Con il trionfo definitivo dell’ortodossia, avvenuto nel 843 d.C., si consolida la dottrina dei grandi padri cappadoci: S. Basilio e s. Gregorio Nazianzeno, i quali partendo dal passo del Genesi in cui è detto che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen.1,26), sostengono che: l’immagine è un dono ontologico che Dio ha fatto all’uomo, per cui è incancellabile anche in presenza di gravi peccati commessi, la somiglianza, invece, consiste nel conformare la vita dell’uomo alla volontà di Dio. Quindi, mentre l’immagine di Dio l’uomo non la perde mai; la somiglianza è invece legata a tutto il suo orientamento esistenziale.

Per via analogica si può intessere un parallelismo tra il rapporto che c’è tra l’immagine e la somiglianza, e il rapporto che c’è tra il volto e lo sguardo: il primo è ciò che di specifico possiede ogni uomo, mentre il secondo è il risultato dell’effusione della Luce che promana dal suo centro.
Ma, affinché tale Luce, che altro non è che l’effetto del risveglio dello Spirito, possa manifestarsi e far sì che il volto diventi sguardo, è necessario seguire un lungo e arduo itinerario di Autoconoscenza.
L’interesse all’Autoconoscenza può nascere in vari modi: può manifestarsi naturalmente, ma ciò avviene in casi rari grazie ad una innata vocazione, oppure può essere stimolato da un evento esteriore che va a risvegliare un sopito interesse interiore dell’individuo. Uno di questi elementi che provengono dal mondo esterno potrebbe essere: la contemplazione di una Icona Sacra.

L’Icona, però, per poter essere Vera, cioè Sacra, deve poter riflettere la Luce nello sguardo del Cristo, della Madre di Dio e dei Santi. In ciò è riposta la responsabilità dell’iconografo, il quale, oltre a dover seguire i canoni tecnici stabiliti dalla tradizione ecclesiastica per la realizzazione di una Icona, deve operare una profonda purificazione di se.
Con l’ausilio di digiuni e di preghiere, colui che si accinge a rappresentare il volto di Dio, dovrà giungere a realizzare all’interno di se uno stato di “vuoto”, cioè uno stato di assenza di pensiero, di sentimento e di sensazione che derivano dalla sua personalità empirica. In tale stato di purezza interiore l’iconografo chiederà umilmente allo Spirito Santo di guidare la sua mano affinché possa degnamente disegnare il volto di Cristo, della Madonna o dei Santi.
Inoltre, affinché il raggio della Luce divina, trasmesso dallo sguardo dell’Icona, possa essere contemplato dall’osservatore, e non semplicemente guardato così come si guardano i quadri di un museo, è necessario che anch’egli sia in grado di realizzare uno stato oggettivo della sua coscienza, frutto di una adeguata preparazione spirituale.
In altri termini la contemplazione di una Icona Sacra, se si è realizzata la giusta predisposizione interiore di cui si è detto, produce uno stato in cui viene trasceso sia il tempo che lo spazio, che definiscono l’esperienza ordinaria della realtà, potendo accedere così all’ esperienza del Sacro, cioè alla Vera Realtà, pregna di Potenza, di Bellezza e di Verità.

Antonio Bosna

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